Recensione: FAI BEI SOGNI, un film di Marco Bellocchio. Meglio dei suoi due film precedenti

fais-de-beaux-reves-c-simone-martinetto-1Fai bei sogni, un film di Marco Bellocchio. Dal libro di Massimo Gramellini (Longanesi). Con Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Guido Caprino, Nicolò Cabras, Barbara Ronchi, Emmanuelle Devos, Miriam Leone, Piera Degli Esposti. Da giovedì 10 novembre al cinema.Fais de beaux reves (c) Simone Martinetto 3
Inaspettatamente non accolto in concorso al festival di Cannes, questo nuovo Bellocchio è rispuntato (sempre a Cannes) come film inaugurale della parallela Quinzaine des Réalisateur. Dove ha avuto un’ottima accoglienza, al di là delle attese. Tratto dal bestseller di Massimo Gramellini, Fai bei sogni racconta di un bambino che resta orfano di madre, e che quel trauma se lo porterà dietro anche da adulto. Fino allo scioglimento finale. Storia gonfia di sentimenti, anche di retorica, ma a modo suo irresistibile. Bellocchio fa del suo meglio, e qua e là riesce a cavare pezzi di grande cinema. Non proprio un capolavoro, ma sarà un successo, in Italia e anche fuori. Voto 6 meno (però almeno 7 a Marco Bellocchio)
Fais de beaux reves (c) Simone Martinetto 2

Marco Bellocchio

Marco Bellocchio

A dirla tutta, da Marco Bellocchio dopo i due deludentissimi film precedenti, Bella addormentata e Sangue del mio sangue, non mi aspettavo più niente. Invece, alla visione, Fai bei sogni s’è rivelato non così male: finalmente da parte del regista venuto da Bobbio un film accessibile, non troppo lambiccato, quasi godibile. Del libro di Massimo Gramellini da cui è tratto credo sappiate tutto, e credo sappiate più di me che non l‘ho letto (non sono tra il milione di italiani che l’ha acquistato trasformandolo in un clamoroso bestseller), libro autobiografico però se ho ben capito in forma di romanzo e dunque con una qualche fictionalizzazione o schermatura di cose e persone reali. Storia ben nota di un ragazzino di otto anni di nome Massimo che nella Torino dei tardi anni Sessanta resta orfano dell’adorata mamma, andata a via a soli anni 38. Quel che il film ci mostra è un bambino non simpaticissimo – e con un po’ troppo della gnagnera dei bambini-attori italiani – che quella morte non la accetta, non ce la fa, vorrebbe saperne di più, anche perché la mamma neanche gliel’hanno fatta vedere, solo la cassa ormai sigillata. Per proteggerlo, dicono il babbo e i parenti tutti, solo che lui così non riesce, come dicono le cattive psicologhe, a elaborare il lutto, e il trauma se lo trascinerà dietro fino alla vita adulta. A scuola racconta a tutti, mentendo sapendo di mentire, che la mamma è viva ma lontana, a New York, e cova rancore verso chi è sempre stato reticente nel dirgli, anzi nel non dirgli cosa è davvero successo. Infanzia e prima adolescenza dell’orfano a metà che si mescola e alterna agli anni Novanta, con lui diventato grande e con la faccia e i modi perplessi di Valerio Mastandrea, clamorosamente miscast, sempre con quell’aria da romano vero che nella medio-alta borghesia di Torino cosa mai ci starà a fare, sant’Iddio. Massimo fa il giornalista, di sport e poi di cose anche più toste e serie, come tangentopoli, come la guerra in Bosnia. Però sempre con quel trauma dentro a roderlo e a rendergli triste la vita. Fino alla rivelazione finale che non dico, anche se la sapete già, e che riscrive tutta la storia. Ora, si fa abbastanza fatica a capire cosa ci abbia trovato Bellocchio in questo melodramma familiare ipersentimentalista e gonfio di retorica con un protagonista orfano certo sofferente, ma pure qua e là insopportabilmente narciso e autoriferito (vogliam parlare delle scene finali quando il nostro non ha la minima parola di comprensione per la povera madre accusandola, ancora!, di averlo abbandonato?). Una storia oltretutto trasposta nel film con dialoghi al limite dell’inudibile, e con sequenze intere di cui faremmo a meno, come l’escursione nei Balcani o quella sulla collina torinese nella casa dell’amico ricco e stronzo. Per fortuna che Bellocchio c’è, ed è in grado di cavare visioni e cinema vero anche da un feuilleton tra Carolina Invernizio e Senza famiglia, per quanto aggiornato agli usi e agli psicologismi della contemporaneità italiana. Specialista nel cinematografare l’inconscio, appronta scene di un (sur)realismo più onirico che magico, dalla bara della madre che sovrasta e schiaccia il bambino al megapresepe in cui par di precipitare in un mondo parallelo. E le lezioni del sacerdote-mentore, e i percorsi misteriosi nelle vecchie case colme di libri e carte e ogni possibile soffocante arredo. E incubi e fantasmi e fantasticherie, molto giocando sul Belfagor televisivo anni Sessanta culto di mamma e figliolo. La claustrofobia familiare, così bellocchiana da sempre, trova in questo film un’altra occasione per imprigionare i personaggi e, per contagio, pure noi spettatori. Bellocchio dissemina il suo racconto di prefigurazioni, anticipazioni psichiche, premonizioni, come l’ossessione da parte di Massimo bambino, ragazzo e adulto della caduta, del precipitare, una spia di quello che sa ma non vuole ammettere di sapere. E via allora con la statuetta di Napoleone lanciata dalla finestra, con Belfagor che precipita, con il tuffo dal trampolino più alto della donna-salvatrice (una Bérénice Bejo bellissima). Come in quel romanzo psicanalitico anni Ottanta, L’albergo bianco, dove la protagonista attraverso visioni inconsce pre-vedeva e pre-sentiva quanto le sarebbe successo. Se solo Bellocchio avesse seguito con più radicalità e convinzione questa traccia di connessioni, concantenazioni inconsce, avremmo avuto un altro (e migliore) film. Purtroppo c’era il testo-bestseller di partenza che non poteva più di tanto essere stravolto, e al quale il regista resta nella sostanza fedele non riuscendo così evitare il sentimentalismo e l’autoindulgenza del main character. Ma alla fine il film, pur nelle sue disconinuità, pur con i molti momenti insostenibili, ce la fa a funzionare come macchina di spettacolo, e la reazione della prima alla Quinzaine ne è la prova. Fai bei sogni potrebbe diventare uno dei migliori risultati commerciali di Bellocchio, e un successo internazionale.

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