film recensione: L’ULTIMA SPIAGGIA. Uomini di qua e donne di là, ciacolando bordomare a Trieste

a7c0738a6f2a7dfc8e3590f2b85a86be8e5f98207755b01484d009042fa7f3fdL’ultima spiaggia – The Last Resort, un documentario di Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan. Presentato lo scorso maggio a Cannes, proiezione speciale fuori concorso. In questi giorni in alcune sale italiane: ulteriori informazioni alla pagina Facebook. A Milano allo Spazio Oberdan  dal 15 al 25 novembre. All’anteprima del 15 sarà presente Thanos Anastopoulos.
c6f8ad27204deed42cf02ac0aed208f2Ufficialmente si chiama la Lanterna, ma per tutti è il Pedocìn, la spiaggia più amata e popolare di Trieste. Un’istituzione con qualcosa di speciale, un muro che separa uomini e donne. Oscurantismo? Ottuso tradizionalismo? Macché, un’eredità austroungarica di cui i triestini sono orgogliosi. A loro sta bene così e con quel muro convivono allegramente. L’ultima spiaggia va a indagare una stagione di sole e bagni e ciacole del Pedocìn, le sue storie, i suoi personaggi. Bello e divertente. Ma troppo lungo e ripetitivo. Voto tra il 6 e il 7
6af9dfd07dc328eb98d389ed8eb06691Miracolo a Cannes. Un piccolo documentario italiano (coprodotto anche da Francia e Grecia) assai indipendente, di due autori certo bravi ma non così conosciuti, che viene inserito nella selezione ufficiale e presentato in proiezione speciale. Con pieno merito, va detto. Un miracolo che ricorda quello di Roberto Minervini ammesso sempre a Cannes, e sempre in special screening, nel 2012 con Stop the Pounding Heart. Promozionato, questo documentario della coppia registica Thanos Anastopulous (greco ma abitante a Trieste da otto anni) e Davide Del Degna (triestino da sempre), come il ritratto e il racconto della spiaggia triestina detta El Pedocìn ultima in Europa a conservare un muro divisorio tra uomini e donne. E dunque ci si aspettava tutta una cosa e una lagna genere signora mia ancora si conculcano i diritti da spiaggia, ancora le donne son separate e oppresse, ancora in un lembo d’Italia sopravvive l’oscurantismo medievale che poi ci lamentiamo dell’Isis e invece l’Isis ce l’abbiamo in casa. Invece no, per fortuna. La gente che al Pedocìn va è contentissima, anzi è orgogliosa di quel muro (“sa, semo autroungarici, ci teniamo al decoro”, commenta al riguardo una signora spiaggiante), ci convive allegramente, tant’è che quando il comune, proprietaria di quella striscia non di sabbia ma di ciottoli, si provò ad abbatterlo, ci fu una sollevazione popolare. Per raccontarcelo Anastopoulos e Del Degan adottano i linguaggi e i modi del documentario di ultima generazione, no interviste, no faccioni parlanti, niente didascalie, niente voce fuori campo, solo immagini e immagini e parole colte dal vivo, con poi un lavoro immane di montaggio per cavar fuori una struttura, un’architettura, una narrazione. Ci riesce, la coppia registica? Sì e no. L’ultima spiaggia dura due ore e un quarto, ed è francamente un’enormità. Una sforbiciata di quaranta minuti avrebbe snellito e molto aiutato. Il progetto è quello di riprendere le due metà della spiaggia, la maschile e la femminile, durante un’intera stagione balneare, da apertura a chiusura. Nel corso dei mesi di esposizione al sole e balneazioni facciamo la conoscenza di un bel po’ di signore e signori, alcuni dei quali balzano fuori come veri personaggi cui si finisce con l’affezionarsi. Come Vinicio, l’anziano che sistema, non richiesto peraltro, le sedie e sempre in rotta con la gente e con il mondo (“basta basta basta! da oggi non parlo più, sono stufo de fare la serva a tuti!”). E sono gli anziani i padroni del Pedocìn, loro a intrattenerci e divertirci con le arguzie, le facezie, le burle, le bevute, le canzoni popolari triestine, il cicaleccio in quella loro meravigliosa e fluida lingua di ceppo veneziano, le partite a carte, i commenti sulla gente e sul mondo. Ecco, vien fuori la triestinità, che è un categoria dello spirito e dell’anima, un’appartenenza, una senso di orgogliosa alterità rispetto al resto d’Italia. Un’identità cangiante e transumante da una patria all’altra. Le chiacchiere più interessanti son quelle sul sentirsi italiani o ancora austroungarici, ancora figli di Cecco Beppe. E sulla fuga dall’Istria diventata titina, e ricordi di chi non ce l’ha fatta a scappare ed è stato ammazzato. “Sciavi, son sciavi! Noi li chiamiamo così gli slavi!”. In un’oscillazione identitaria che dura almeno da quando l’impero di Vienna è crollato. Son fantastiche le sigbìnor che ogni giorno si ritrovano a giocare a carte, ciacolare, cantare e magari pure ubricarsi di lambrusco. I giovani, da entrambe le parti del muro, non sembrano all’altezza dei grandi vecchi del Podecìn, smorti come sono e apatici, persi dietro alle loro telefonate ingrugnite e i loro selfie compulsivi. Erotismo zero al Pedocìn. Tutt’al più qualche sguardo tra un settantenne e una coetanea durante il bagno, anche quello rigorosamente separato. Gli unici con lasciapasare sulle due parti sono i bagnini, uno serbo protmanete adottato al suo arrivo dal popolo della spiaggia. Sucede anche un qualcosa che non ti aspetti, con la vita che fa sentire tutto il suo peso, e la sua drammaticità. Il film tiene benissimo per un’ora, poi si accartoccia e si avvita. Mi ha ricordato Le bois dont le rêves sont faits di Claire Simon, perlustrazione con macchina da presa della vita evidente e della vita nascosta del parco di Vincennes, appena oltre Parigi. Molte le affinità. Anche se Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan non riescono sempre a scovare storie altrettanto interessanti.

Questa voce è stata pubblicata in al cinema, cinema, Container, film in tv e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.