Il film imperdibile stasera in tv: I PUGNI IN TASCA di Marco Bellocchio (dom. 13 nov. 2016, tv in chiaro)

I pugni in tasca, un film di Marco Bellocchio (1965). Rai Storia (canale 54 dt), ore 21,00. Domenica 13 novembre 2016.
schermata-2016-11-12-alle-23-42-18schermata-2016-11-12-alle-23-42-14Il ’68 del cinema italiano fu questo film di tre anni prima, 1965. Annunciazione e gestazione del più grande sommovimento sociale del nostro dopoguerra. E nascita di un autore, Marco Bellocchio, che parecchio avrebbe dato nei decenni a seguire, ma che non avrebbe mai più eguagliato (si potrà dire?) questo suo esordio sensazionale. Esordio con dentro parecchie inquietudini di quegli anni Sessanta di forsennato cambiamento nell’economia, ma anche, soprattutto, nell’antropologia, nella cultura di un popolo, nell’anima profonda di una nazione (e dell’Occidente tutto). La rivolta delle generazioni giovani frutt0 del baby boom contro le parrucconerie tradizionali e passatismi vari; la fede cieca nella (presunta) forza sovversiva dell’eros; il rigetto irridente delle istituzioni più o meno sacre, la scuola, lo stato, la chiesa, la famiglia. I pugni in tasca al di là delle stesse intenzioni del suo autore si trasformò in un film-manifesto, con la sua vena anarcoide e disgregatrice, qualcosa che sembrò rovesciare lo stesso cinema italiano. Il più folgorante debutto filmico dopo quello di Visconti di Ossessione, scrisse qualcuno, e la definizione da allora sarebbe diventata luogo comune, cliché, un’etichetta destinata a restare attaccata addosso a I pugni in tasca e al suo regista per sempre, vera o falsa che fosse (oggi, direi più la seconda della prima). Vincitore a Locarno del premio massimo, che allora non era il Pardo ma la Vela d’oro, proprio a Locarno l’anno scorso, 2015, è stato celebrato in occasione dei suoi cinquant’anni con la proiezione in Piazza Grande della versione restaurata. Con buon riscontro di pubblico e stampa, a conferma del suo consolidato status di classico. I pugni in tasca mantiene a mezzo secolo di distanza la sua fragranza, il suo furore insieme vitalistico e funereo, la capacità di restituire in cinema la piccola e provincialissima Italia di allora sull’orlo dell’immane mutazione antropologica ma ancora inconsapevole, chiusa, introflessa, ripiegata su se stessa, terrorizzata dall’innovazione. E dunque bersaglio perfetto di ogni impeto sovversivo. Film con parecchi incroci tra rappresentazione e la stessa biografia di Bellocchio, perché la casa di Bobbio, nell’alto piacentino, in cui si svolge la foschissima vicenda è quella della sua famiglia, e sembra quasi che lui si compiaccia a sottolineare certe affinità, certe similitudini tra arte (la sua arte) e vita (la sua vita). Ambiguità che ha sempre coltivato, fino agli ultimissimi film. Sangue del mio sangue, per dire, è pure ambientato a Bobbio, e son parecchi, come già allora nel debutto, i parenti che si prestano a far da attori in ruoli collaterali, tanto per rimescolare ancora di più il quadro. I pugni in tasca, dunque. Tre fratelli, una sorella e la loro madre cieca chiusi in una grande casa di provinciale, padronale signorilità e di agi consolidati da generazioni, mentre su tutto e tutti incombe un senso di disfacimento, un’entropia inesorabile. Il fratello minore epilettico e psichicamente disabile sembra rimandare a un’oscura tara ereditaria, come in un romanzone naturalista ottocentesco. Il figlio grande, Augusto, è il più sfacciatamente inserito nelle correnti di superficiale modernità del tempo, vuole affermarsi socialmente, vuole prendersi la sua fetta di bella vita, vuole sposarsi e andarsene da lì. Poi c’è Sandra, la sorella innamorata incestuosamente di lui, il bello di famiglia, il figlio socialmente riuscito (lo interpreta Marino Masè). Ma è intorno a Ale, epilettico e pazzoide, che ruota la trama, e si costruisce il discorso sovversivo di Bellocchio. È lui l’eroe, negativo o positivo che sia, colui che introdurrà in quel mondo a parte e claustrofobico la rivolta, il disordine. Ale è un distruttore, un angelo sterminatore, ha una vocazione nichilista e ciecamente demolitrice che lo porta a uccidere prima la madre scaraventandola giù da un dirupo e poi a progettare lo sterminio dell’intero nucleo familiare. Fu, sia detto senza esagerazione alcuna, uno choc enorme, per il cinema italiano (Venezia non lo volle) e per l’Italia. Mai si era visto un film così sfacciatamente, programmaticamente contro, così amorale, così protervo nella sua voluttà inconoclasta, nel mettere sotto accusa quell’intrico tra famiglia, stato e chiesa su cui si fondava la pax democristiana, il sistema Italia. Ora certi ideologismi quasi sessantottardi, certi anarchismi assai programmatici risultano alquanto datati, mentre del film restano intatti la forza perturbante da jeu de massacre in un interno chiuso, anzi sbarrato, le sue equivoche e morbosissime atmosfere, il suo essere ballo di fantasmi che non sanno di esserlo. Lou Castel, svedese italianizzato e diventato il simbolo, la faccia del cinema di ribellione di quegli anni, è Ale, e da quel ruolo resterà marchiato per sempre (e mica per niente si chiama A pugni chiusi il documentario realizzato su di lui da Pierpaolo De Sanctis che si vedrà tra pochi giorni al Torino Film Festival). Paola Pitagora, fantastica, diventerà una diva di lì a poco come Lucia dei televisivi Promessi sposi. I pugni in tasca resta ancora oggi opera personalissima e unica, difficile da apparentare ad altre del nostro cinema. Un film-isola, senza antecedenti e senza successori. Marco Bellocchio dichiarò allora il suo amore per il Visconti di La terra trema e di Senso, ma il Visconti che più gli somiglia – o che in qualche modo sembra somigliarli – verrà di lì a poco, con la famiglia infernale, cannibalica e incestuosa  di La caduta degli dei. Molte le storie (le mitologie?) intanto cresciute intorno a I pugni in tasca. Che a finanziarlo sia stato uno dei fratelli Bellocchio, che l’autore avrebbe inizialmente voluto come protagonista Gianni Morandi e nella parte della sorella Jean Seberg o Raffaella Carrà. Ve lo immaginate I pugni in tasca con il signor In ginocchio da te e la signora Tuca tuca? Certo non sarebbe stato lo stesso film, ma neanche Morandi e la Carrà sarebbero più stati gli stessi dopo, e non sarebbero quel che sono oggi.schermata-2016-11-12-alle-23-42-06schermata-2016-11-12-alle-23-41-48

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