Sully, un film di Clint Eastwood. Con Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney.
La storia del pilota che ammarando sull’Hudson salvò la vita di 155 passeggeri è ora un film. E l’everyman prontamente trasformato in eroe popolare trova il regista perfetto in Clint Eastwood, uno che come pochi sa raccontare l’America profonda, i suoi valori, i suoi protagonisti nascosti e qualunque. E chissà quanti, vedendo il povero Sully umiliato e messo sotto inchiesta dai poteri variamente forti, si saranno indignati. Finendo col fiancheggiare la rivolta antiélite di Trump. Voto 7 emezzo
Poi dicono che non si capisce come l’America abbia potuto eleggere Trump a commander in chief. Ecco, questo film una qualche risposta la suggerisce. Nonostante non sia un blockbuster programmato tipo Marvel-Disney o Sony, Sunny ha finito con l’incassare negli Usa 125 milioni di dollari, si immagina non solo a New York e Los Angeles ma anche nella provincia più provincia, e una qualche ragione ci sarà. Questo nuovo Eastwood-movie è, semplicemente, il film giusto al momento giusto, il film sintonizzato su umori e malumori dell’America qualunque, bianca e incazzata contro i poteri forti di vario tipo, dai signori di Wall Street ai fighetti dei media alle star di Hollywood, straricche e però liberal e sempre lì col ditino alzato a fare prediche politicamente corrette ai buzzurri. Sully è l’abbreviativo affettuoso e pop di Chesley Sullenberg – di quel pilota che in una giornata di freddo boia di metà gennaio 2009 planò sull’Hudson col suo aereo in avaria riuscendo non solo nell’incredibile impresa di ammarare senza affondare, ma pure di salvare tutti ma proprio tutti i 155 occcupanti dell’aviogetto, tra crew e passeggeri. Le foto dei salvati e non sommersi dislocati sulle ali appena affioranti dall’acqua si impressero nella mente americana e globale, e son diventate ormai iconiche. Sully ebbe a disposizione solo una manciata di secondi per decidere dopo un bird strike – uccelli che avevano mandato in malora i due motori – se raggiungere il più vicino aeroporto o prendere come pista l’Hudson: scelse la seconda, convinto che non ce l’avrebbe mai fatta coi motori in avaria ad arrivare fino al La Guardia. Ebbe ragione. I media lo issarono sul piedestallo dei grandi uomini, degli eroi americani. Eroe per un giorno, eroe per sempre. Chiaro che una storia così, di un everyman capace di trasfigurarsi in superman, dovesse interessare prima o poi Clint Eastwood, cantore pur senza retorica e sempre a ciglio asciutto e con modi virilmente secchi dell’America vera. Ma l’aspetto straordinario di Sully, di una sceneggiatura che Eastwood mette in film con la solita economia di mezzi, di tempo, di emozioni piallando via ogni superfluità, è che il suo focus non sta nell’incidente, nell’ammaraggio, nel salvataggio, nell’eroismo all’opera, ma nel dopo: il processo, anche se tecnicamente non è tale, cui il comandante venne sottoposto. Succede che mentre l’America giustamente impazzisce per Sully, una commissione mette sotto inchiesta lui e il copilota. Hanno fatto la cosa giusta? Davvero l’aereo era così malmesso da non poter raggiungere il più vicino aeroporto? Era proprio necessario ammarare mettendo a rischio l’incolumità dei passeggeri e lo stesso velivolo? Già, perché il problema arriva dall’assicurazione, ovvio, e dalla compagnia aerea che non vuole ritrovarsi a pagare l’aereo perduto. Quello che il film fedelmente ci mostra e racconta è la trafila sicuramente necessaria ma altrettanto sicuramente umiliante cui Sully viene sottoposto, gli interrogatori, le simulazioni che smentiscono la sua versione (e che verranno a loro volta smentite), mentre nei bar lo riconoscono, gli danno pacche sulle spalle, brindano alla sua salute. Un film populista? Se mai un film che sa intercettare gli umori popolari.L’America che ha votato Trump credo sia anche (in parte) quella che ha visto e applaudito il film, che ha adottato come proprio eroe e bandiera Sully, che si è riconosciuta in lui, nel suo senso del dovere, e che si è indignata per come quelli là (i ricchi, i potenti, le assicurazioni, le banche ecc.) lo hanno trattato. Poi dicono che il cinema è una bolla a sé e non sa raccontare il reale, la storia, la cronaca, e ancora meno riesce a influenzarle. Questo film dimostra clmorosamente il contrario. Non dico che abbia spostato voti, ma di sicuro ha contribuito a stabilire un clima, una sensibilità collettiva. Tom Hanks, dopo l’abbastanza imbarazzante Inferno, torna a fare quello che gli riesce meglio, l’americano qualunque che crede nelle cose in cui è giusto credere. La reincarnazione di James Stewart. Come secondo un Aaron Eckhart con baffo proletario che non ti aspetti, bravo e credibile. Laura Linney è ormai la perfetta signora americana middle class (però quegli orrendi scamiciati che le hanno messo addosso dove mai li hanno trovati?).
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