No, non stavo alla Scala. Non in platea, non in un palco, tantomeno in quello reale vuoto di presidente della repubblica per i motivi che sappiamo (e però a Mattarella spargere una lacrima sulle sorti della poveretta di Nagasaki sedotta e abbandonata mica avrebbe fatto male). Semplicemente la Madama Butterfly che ha aperto la stagione 2016/17 del Piermarini l’ho vista, come una (spero) non modica quantità di italiani, in tivù, RaiUno, purtroppo con introduzione di un’irriconoscibilee ma sempre garrula Milly Carlucci accompagnata da Antonio Di Bella. Irriconoscibile almeno per me, che non la incrociavo sullo schermo di casa da anni. E adesso se permettete vorrei dire la mia sulla prima di Sant’Ambroeus, così, da spettatore qualunque, da fruitore intermittente e abbastanza casuale di melodrammi lirici (ogni tanto, quando capita, anche alla Scala), da mediamente (in)competente. Per cui non mi azzarderò a dare giudizi – tutt’al più impressioni – sulla partitura, la direzione di Riccardo Chailly, i cantanti, la scelta di tornare alla fonte, ovverossia alla prima e originaria versione pucciniana dell’opera. Quella che fu fischiatissima alla sua prima proprio al Piermarini nel 1904. Tanto da costringere il musicista a correggere, aggiungere un’aria di Pinkerton, operare altri cambiamenti di cui non saprei dirvi granché (piuttosto, leggete le dotte e però mai noiose analisi e critiche di gente brava e esperta come Alberto Mattioli su La Stampa e Luca Chierici su Il corriere musicale). Ma se non mi inoltro in considerazioni musicali, qualcosa sull’allestimento – regia del lettone Alvis Hermanis, scene sempre di Alvis Hermanis e Leila Fteita – vorrei invece dire. Una Madama Butterfly che mi è sembrata elegante, decorativa, calligrafica, senza apparenti sbavature, dunque perfetta per piacere alle sciure milanesi agghindate da prima-di-Sant’Ambrogio e per tener buoni i loggionisti sempre pronti a scatenarsi contro la sia pur minima e timida sperimentazione e uscita dal seminato. Gran colpo d’occhio, quella parete tutta costruita sulla replicazione-moltiplicazione in orizzontale e in verticale dei pannelli scorrevoli delle tradizionali case giapponesi. Un trionfo di Armani Casa!, ha esclamato il mio amico Giorgio, azzeccandoci parecchio. In trasparenza e in controluce panorami e motivi ed elementi architettonici come da giapponeserie assai amate. Tetti di pagode, ciliegi in fiore nella duplice versione bianca e rosa, baie marine, e ancora fiori, tanti fiori, volti stilizzati di fanciulle, kimoni, obi. E tatami e fors’anche futon in scena. Abbondanti citazioni e strizzate d’occhio a Hokusai (e Hiroshige e Utamaro), in mostra giusto adesso e fino al 27 gennaio qui a Milano a Palazzo Reale, a due passi dalla Scala, come se Hermanis e Fteita ci fossero appena passati. E poi un tripudio graficizzante da barthesiano Impero dei segni, e rimandi al gusto orientaleggiante egemone in Europa entre deux siècles, tra Liberty e simbolismo. E un’abbondanza di costumi tutti assai belli e filologicamente corretti, ma così sontuosi da essere prevaricanti, ingombranti, dunque sabotatori di ogni eventuale riflessività e sensibilità zen. Che, si sa, predilige anzi esige il vuoto, il minimal, il nulla, lo zero. La regia si rifugia dietro a una raffinatezza più apparente e appariscente che sostanziale, levigata e rassicurante e inoffensiva, per non arrischiare e non azzardare niente, preferendo all’invenzione sempre compromettente una convenzionale bellezza che però mai diventa vera e grande. Quanto sia esteriore e sotto-il-kimono-niente questa messinscena lo si vede dalla fastidiosità delle mosse, mossettine e smorfie imposte a protagonisti, coro, figuranti vari, tutto un atteggiarsi secondo moduli di stilizzazione e fissità kabuki, ma rifatta assai approssimativamente, in un kabuki piuttosto de’ noantri senza penetrazione e con risultati di massima goffaggine. Che son cose quelle lì che bisogna lasciar fare ai giapponesi veri, che da quell’humus culturale vengono, ci sono immersi, lo sanno riprodurre, invece noi che stiamo da questa parte dell’Eurasia è meglio che lasciamo perdere. Pena l’effetto, come in questo caso, di imbarazzante e involontaria parodia. Non c’è quasi mai un’invenzione illuminante che potenzi quanto è detto in Puccini, o porti a galla quanto vi stia nascosto nel profondo. Niente, solo il puro illustrativismo che strappa l’applauso sicuro. Eppure questa terribile storia, che continua a tramortirci e commuoverci a un secolo di distanza, è di sconcertante e stupefacente attualità. Perfino profetica. Una storia, non solo di prototurismo sessuale come da più parti s’è scritto in questi giorni, ma anche di esemplarissimo scontro di civiltà alla Samuel Huntington, dove l’aspirazione di Butterfly di passare da un campo all’altro, da una cultura all’altra, verrà duramente punita. Perché, ed è quanto aveva intuito Puccini e quanto la storia ancora si ostina a confermarci ogni giorno, le faglie tra civiltà sono abissi che la volontà dei singoli non può superare. Ma credete che questo possente sottotesto trapeli in qualche modo dalla regia di Alvis Hermanis? Macché, niente, a parte la discreta intuizione di arredare la casa di Cho Cho San all’inizio del secondo atto all’occidentale, a indicare il suo illusorio sentirsi ormai americana dopo quel matrimonio farlocco con il turpe Pinkerton. L’immagine di Gesù alla parete è il solo accenno a un dato in my opinion centrale e decisivo della struttura drammatica di quest’opera, la conversione di lei al cristianesimo. Che ne farà una traditrice agli occhi della sua famiglia e comunque non basterà a farla accettare da Pinkerton e dal suo mondo. Che grande intuizione da parte di Puccini, e che occasione perduta dalla regia. Solo una scena mi è rimasta in mente, infrangendo per qualche minuto l’aurea medietà di uno spettacolo troppo piacione, ed è la maledizione lanciata sulla nipote dalla zio Bonzo. Una figura minacciosa tra i più tosti samurai di Akira Kurosawa e certi mostri manga. Lasciando per un attimo intravedere un’altra, possibile Butterfly, che più che rifarsi alle giapponeserie liberty, ovvero alla convenzione e alla memoria che l’occidente ha sviluppato di quel mondo, guardi invece all’imagerie nipponica dei fumettacci, degli anime. E dei meravigliosi cartoni di Miyazaki e del suo Studio Ghibli (e vedendo l’opera pucciniana viene in mente La collina dei papaveri, produzione Ghibli diretta da Miyazaki Jr. collocata in un’altra citttà-porto del Giappone con arrivi e partenze di navi varie, Yokohama). Certo che Madama Butterfly, con il gaglioffo Pinkerton venuto dall’America a comprare una ragazzina di quindici anni, e con il suo amore impossibile e asimmetrico lanciato tra due mondi e precipitato nel mezzo, resta un prototipo immarcescibile. Anche per il cinema. Al Torino Fim Festival l’altra settimana ho giusto visto un raffinato e crudele, stilizzatissimo, ipnotico film indonesiano, Nyai, A Woman fron Java, in cui una giovane donna locale comprata e sposata da un vecchio colono olandese si ritrova stritolata tra la cultura dei padroni europei e quella delle sue origini. Finendo con l’essere rigettata da entrambi i mondi. L’eterno ritorno di Butterfly, anzi la sua infinita permanenza. (Ma perché per una prosssima Madama Butterfly da qualche parte non chiamare il regista di Nyai, A Woman fron Java Garin Nugroho?).
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3 risposte a Prima della Scala: dico la mia sulla regia di MADAMA BUTTERFLY. Sotto il kimono niente?