Recensione: È SOLO LA FINE DEL MONDO, un film di Xavier Dolan. Una delusione interessante

6cf28d4773555ac81e1a2f68318c61ec75c9f4da35a4b1b9146cbda5e54fadeaÈ solo la fine del mondo (Juste la fin du monde – It’s only the end of the world), un film di Xavier Dolan. Con Gaspard Ulliel, Léa Seydoux, Marion Cotillard, Vincent Cassel, Nathalie Baye.
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eslfdm_10_20161104_1945440725Non è quella cosa orrenda come molti, ansiosi di infrangere l’dolo Xavier Dolan, hanno detto e scritto. È solo la fine del mondo conferma anzi tutto il talento di metteur en scène del ragazzo french-canadese. Un giovane uomo torna a casa dopo dodici anni per rivelare alla famiglia la propria morte imminente. Ma si scatenerà l’inferno con mamma, sorella, fratello, cognata. Testo di origine teatrale abbastanza ostico e oscuro. Dolan azzecca molte cose – il ritmo, la tensione, la scelta di lavorare quasi solo sui primi piani – ma resta sempre all’esterno del testo e dei personaggi. E il pessimo Gaspard Ulliel non aiuta (mentre gli altri sono tutti bravissimi). Voto 7 meno

Xavier Dolan sul set tra Léa Seydoux e Nathalie Baye

Xavier Dolan sul set tra Marion Cotillard e Nathalie Baye

Ma se lo meritava allo scorso Cannes il Grand Prix, il secondo riconoscimento in ordine di importanza dopo la Palma d’oro? No che che non se lo meritava, benché non sia così brutto come molti soprattutto allora l’hanno dipinto. Però in concorso c’erano almeno sei-sette film migliori di questo Dolan numero 6, un Dolan minore (non sono entrati nel palmarès, per dire, Elle, Ma Loute, The Neon Demon, Sieranevada…). Peraltro pure fischiato al primo press screening festivaliero. L’idolo infranto? Portato troppo in alto e troppo velocemente dopo Mommy, Xavier Dolan per via della sua giovane età, e anche di una carucceria fisica da teen-idol, è stato adottato più che dai cinefili dal fashion people dei giornali di moda, dagli stylist, dai fotografi glamorous. L’errore è stato di aver troppo mediatizzato il french-canadese, e da parte sua di essersi fatto troppo mediatizzare. Sarà meglio comunque, per parlare di È solo la fine del mondo, stare sul suo essere cineasta lasciando perdere il resto. Premettendo che Mommy per cui il mondo ha delirato non è neanche il suo miglior film, più interessanti erano Laurence Anyways e Tom à la ferme. Dolan stavolta fa un passo indietro e un passo falso rispetto a quelle riuscite. Questo è film più ostico, accidentato, sfrangiato, con una storia volatile, a tratti inafferrabile, per niente lineare e strutturata (e non si capisce se sia per via del testo originale, o della messinscena). Oltretutto parlato in un francese che m’è parso strettissimo, velocissimo, quasi incomprensibile e con ahinoi, quando l’ho visto a Cannes, sottotitoli inglesi spesso traditori e assurdi. Ma non ce n’è. Dolan nonostante i non pochi errori conferma il suo sbalorditivo talento naturale. Come quei calciatori sudamericani che gli dai un pallone a cinque anni e ti inventano mirabilie senza che nessuno gli abbia insegnato i fondamentali. Non credo abbia fatto scuole di regia, è, semplicemente, uno bravo, uno che se gli dai la macchina da presa sa subito, per istinto, da che parte metterla. Ricordando in questo un altro talento giovane, Orson Welles (non sto ponendo sullo stesso piano i due, non scandalizzatevi), che girò Quarto potere senza neanche saper cosa fosse il cinema (della parte tecnica si incricò il direttore della fotografia Gregg Toland). Come già aveva fatto con Tom à la ferme, per È solo la fine del mondo Dolan non si basa su una sua sceneggiatura originale, ma sul play di un drammaturgo, stavolta Jean-Luc Lagarce, québecois vissuto a lungo a Berlino e morto di Aids, un Koltès canadese. Xavier Dolan colloca il dramma di famiglia di Lagarce in uno ieri imprecisato tra anni Ottanta-Novanta-primi Duemila. Non conoscendo l’originale, non saprei dire quanto sia stato mantenuto e quanto invece riscritto e riadattato. Dal film si ha l’impressione di un testo non lineare, fatto di grumi che a fatica si impastano, voci, corpi, litigi, scontri non sempre intorno a un nucleo chiaro. Anzi, il nucleo vero, il perché del ritorno a casa del protagonista, è del tutto eluso, silenziato, nascosto. Vediamo un sofferente giovane uomo di nome Louis all’inizio dirci, fuori campo: “torno a casa dodici anni dopo per annunciare la mia morte”. Nel corso di tutto il film (un’ora e mezza) aspettiamo che questa rivelazione venga fatta ai parenti, ma la rivelazione continuamente allusa è sempre rimandata, creando equivoci e un’escalation di tensione fino alla tempesta (in ogni senso) finale. Dolan dosa e crea assai bene la suspense lavorando su un materiale oscuro e procedendo per accensioni improvvise alternate a zone opache, a spiazzare lo spettatore e procurargli un’angoscia cieca. Cos’ha mai da dire il protagonista, 34enne drammaturgo di gran successo, presumibilmente gay, a questa famiglia abbastanza rozza con cui aveva tagliato i ponti? Forse che è malato di Aids? O gli importa solo provocare con il suo semplice esserci l’esplosione di quel microcosmo? La madre, la sorella frustrata, il fratello brutale, la cognata sottomessa e non proprio sveglissima, e che però è l’unica a intuire cosa stia succedendo e perché Louis sia tornato a casa. Il resto è come una tela strappata dai cui brandelli dobbiamo ricostruire e imaginarci il tutto, dunque siamo lontani dalla pienezza narrativa di Mommy, e sarà anche per questo che Juste la fin du monde ha suscitato un rigetto così forte. L’impressione però è che nemmeno Dolan abbia le idee chiare, un’idea di regia e una visione precisa di come trattarlo e interpretarlo, quel testo. Così si affida alla sua ben nota abilità di creare scene pop-sgargianti, a una narrazione di tempi velocissimi anzi frenetici, con gente al bordo e survoltata e sovreccitata, e una visualità flashy, strapiena, strasatura, che molto deve alla videomusica. Insomma, il dolanismo. Con un’intuizione notevole, quella di riprendere per tutto il film salvo pochissime scene i personaggi singolarmente e sempre in primo piano nello stesso ambiente, l’interno della casa medioborghese di famiglia (che immaginiamo in Québec, anche se non ci viene detto). Le facce e i corpi sono alterati dal make-up, soprattutto la madre, una maschera grottesca, l’acting è esagitato, c’è molta corporalità (come in Mommy peraltro). Niente chiariscuri, niente penombre, niente sottigliezze e mezzi toni. Tutto è portato letteralmente in primo piano. Solo la verità rimane nascosta. Con effetti anche potenti e una ipersaturazione emotiva assai dolaniana. Nelle parti più riuscite par di assistere a un girone di dannati che si sbranano, si fanno del male fingendosi di amarsi. Ma l’operazione resta sempre all’esterno dei personaggi e del testo. Dolan mostra i muscoli facendoci capire quant’è bravo come metteur en scène, ma gli manca un pensiero davvero forte, un progetto per organizzare la materia che si ritrova tra le mani. Resta alla fin fine un ragazzino di talento, e sarebbe anche ora che crescesse. Non è un disastro, Juste la fin du monde, nei momenti più alti è un huis-clos teso e disturbante al punto giusto, folle e concitato. Dolan mantiene il suo rango d’autore. Ma è un film-limite oltre cui dovrà reinventarsi e smetterla con certe astuzie pop che l’han reso tanto amato tra giovani e fashionisti, e rischiare di più, mettersi in gioco. Il punto di massima fragilità è il pessimo Gaspard Ulliel, lamentoso e inespressivo, incapace di reggere un film che ruota intorno a lui (Ulliel è pessimo anche in un altro film visto a Cannes 2016, La danseuse). Mentre gli altri son bravissimi, ovvio, avendo Dolan chiamato a raccolta il meglio del cinema french-speaking: Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye. Tutti formidabili. Con menzione speciale per la Cotillard in un ruolo ingrato.

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