Free State of Jones, un film di Gary Ross. Con Matthew McConaughey, Gugu Mbatha-Raw, Mahershala Ali, Keri Russell, Brian Lee Franklin, Donald Watkins.
Quello che una volta si diceva polpettone, e adesso non si dice più. Un affrescone di storia pubblica e storie privata con al centro un eroe di nome Newt Knight. I quale, durante la guerra di secessione, si ribella ai cattvi sudisti e mette su, con schiavi e altri ribelli, uno stato indipendente. Capitolo interessante dell’otocento americano, come no, solo messa in scena con troppa dimostratività e correttezza. Con un sempre carismatico Matthew McConaughey che però da solo non può fare il miracolo. Voto 4 e mezzo (il mezzo è per l’aver riportato a galla un pezzo dimenticato di Storia).
È la solita storia. Non bastano le migliori intenzioni e le buone cause a fare di un film un buon film (e lo stesso vale per ogni altra forma di narrazione). Anzi, l’eccesso, l’ingorgo, l’inflazione di contenuti virtuosi tendono a farlo deviare pericolosamente verso il predicatorio, il didascalico, il dimostrativo. A trasformare quello che dovrebbe essere in primis cinema, intrattentimento e racconto, in una lezione a ditino alzato. Per coniugare impegno a fruibilità (e al piacere dello spettatore o lettore), senza che il primo affossi la seconda, bisogna essere quantomeno dei geni alla Bertolt Brecht, il quale sarà stato anche fastidioso, rigido e psantemente ideologico nella sua smania di snocciolarci la rava e la fava delle nequizie capitalistiche, ma ti inchiodava, e continua a inchiodarti se capita, alla poltrona. Gary Ross, che ha alle spalle il primo e migliore capitolo della saga Hunger Games (minaccioso e, ebbene sì, brechtiano al punto giusto, intendo con qualche eco delle distopie brechitiane tra Arturo Ui e Mahagonny), redige invece con questo Free State of Jones una dispensina universitaria, una tesina, un paper senza troppi approfondimenti e complessificazioni, e assai di maniera, su un episodio trascurato ma non così secondario della tumultuosa storia americana dell’Ottocento. Dove un eroe (bianco) venuto dal popolo si mette contro quelli della sua parte, i cattivissimi confederati impegnati nella guerra di secessione che sappiamo, per sposare la causa degli schiavi (neri) e degli agricoltori bianchi oppressi, impoveriti e conculcati da una spietata élite padronale. Storia anche interessante, ma qui confezionata senza sottigliezze e sfumature, e senza un gran senso della misura, anzi con una propensione per la dismisura e la prolissità che porta la lunghezza del film oltre ogni limite consentito e sopportabile (due ore e venti minuti! aiuto!). Come in un Via col vento – siamo in fondo da quelle parti storico-geografiche – però senza incendio di Atlanta e con più circoscritti disastri. Soprattutto senza Rossella O’Hara. Alla cui mancanza cerca di supplire nel ruolo principale e mattatoriale (quello di Newt Knight, prima disertore confederato poi resistente poi ribelle), il sempre sprizzante carisma Matthew McConaughey, però con quell’aria afflitta e sofferente, perfino spetterale, che lo distingue dai tempi di Dallas Buyers Club, film che gli ha dato l’Oscar ma gli ha cambiato definitivamente, e non in meglio, la complessione fisica. Film dopo il quale, secondo il ben noto maleficio della statuetta dorata somigliante allo zio Oscar, Matthew MC ha infilato disastri, prima il tremendo La foresta dei sogni di Gus Van Sant, adesso questo Free State of Jones del meno autoriale Gary Ross. Dove si pretende di spiegarci molto, troppo, della questione razziale negli stati del Sud durante la guerra di Secessione e negli anni, decenni, a seguire. Arrivando con un ardito e per niente necessario flash forward addirittura agli anni Cinquanta del Novecento. Un vasto affresco, quello che in altri tempi si sarebbe detto con più efficacia un polpettone, espressione ormai troppo cheap e inusabile ma di indubbia eloquenza. Polpettone dove al quadro storico si aggiungono faccende e faccenduole privatissime del protagonista Newt, non solo capopopolo ed eroe, ma anche gran seduttore, e bigamo (cosa, secondo il film, benissimo accettata dalle due mogli. Mah). Dunque: siamo al Sud in pieno massacro da guerra civile americana. L’infermiere Newton Knight detto Newt lascia il fronte con ottime ragioni dalla sua parte, ma verrà naturalmente considerato un disertore dai fetentissimi superiori. E allora, fuga per non farsi acchiappare e fucilare verso una zona paludosa (nei film ambientati nel Sud degli Usa ci son sempre paludi pericolosissime, con o senza alligatori) che è già il rifugio-santuario di neri e bianchi ricercati per vari motivi dal potere bianco-razzista. Newt diventerà il leader di quella comunità di uomini e donne fuorilegge, un gruppo destinato a ingrossarsi sempre più man mano che le carognate dei sudisti si moltiplicheranno. Fino a proclamare la contea di Jones stato autonomo e separato dala Confederazione. Quando i cattivissimi prdono la guerra con il Nord sembra che per Newt e compagni siano ormai arrivati la libertà e il riscatto, soprattutto per gli schiavi neri. Ma non sarà così. Si costituirà quella brutta cosa chiamata Ku Klux Klan e comincerà la caccia a chi ha osato ribellarsi. Mentre i vecchi padroni si allineano con i nuovi (diciamo in stile simil-Gattopardo, solo che qui Luchinio Visconti e Tomasi di Lampedusa ahinoi non ci sono). Potenzialmente assai interessante, se non fosse che nelle mani dello sceneggiatore-regista Gary Ross questa notevole pezzo di storia laterale Usa diventa una ballatona ultrapopolare di maniera, con una linea netta, anzi con un muro, a separare i Buoni e i Cattivi, i primi presentatici come anime innocenti tipo i cristiani sbranati dai leoni in Quo vadis?, i secondi come ghignanti malamente da sceneggiata napoletana trasposta in territori sudisti. Sfumature zero, finezze pure (per dire: possibile che nel momento della sua massima potenza Newt, o altri dei suoi, non si lasci andare all’hybris, al delirio di onnipotenza infilando magari una qualche stupidata? invece, sempre virtuoso e con la testa sulle spalle: un santo). E nemmeno una messinscena pulp, da gran cinema della crudeltà tipo Django Unchained o 12 anni schiavo. Qui la semplificazione di ogni pensiero complesso produce, e si riflette in, modi cinematografici banali, in una rappresentazione esteticamente irrilevante, in una narrazione insieme ampollosa, retorica e pevedibile. Passi il rigido manicheismo da predica storicamente corretta, ma almeno gli autori ci avessero immesso un qualche soffio vitale, una qualche maleducazione, una qualche visione (di Storia e di cinema), un minimo di interpretazione originale, magari discutibile, ma almeno non allineata alla sensibilità mainstream. Macché. Siamo alla canonizzazione dei santi e martiri, senza neanhe la fanciullesca ingenuità di certi affreschi popolari, cinematografici e non, di un tempo. Matthew McConauhey fa quel che può, con quella faccia e quel corpo da Cristo in croce che da soli, e solo loro, riescono a suggerirci una passione insieme religiosa e laica di una qualche verità e qualche palpito. Ma i miracoli mica li può fare. Free State of Jones nella sua ansia di raccontarci tutto, e anche di più, e di lanciarci il messaggio che per i neri e i poveri non cambia mai niente, arriva perfino a mstrarci un discendente di Newt e della sua moglie nera, Rachel, portato in tribunale negli anni Cinquanta del Novecento per aver sposato una bianca nello stato (mi pare) dell’Alabama. Sì, perché – e oggi sembano cronache marziane – i matrimoni interrazziali erano un reato. Che vergogna. E però la questione è trattata assai meglio che qui, e con più finezza e con encomiabile mancanza di retorica, in Loving di Jeff Nichols visto in concorso a Cannes, e tra i meglio piazzati per l’imminente corsa agli Oscar 2017. Se ricordo bene, uscirò da noi in gennaio. Non perdetevelo.
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