Il fascino discreto della borghesia, un film di Luis Buñuel (1972). Rai Storia, ore 21,05. Domenica 11 dicembre 2016.
Titolo diventato proverbiale, impiantatosi stabilmente da quell’inizio anni Settanta nel nostro lessico familiare. Titolo di tale fortuna da aver finito con l’oscurare lo stesso film, col prevaricarlo e ingoiarlo, un film che pure è un capolavoro della maturità di Luis Buñuel, della sua stagione francese che da Belle de jour in poi lo vide affermarsi come maestro universalmente indiscusso e venerato. Lui, che pure invece era sempre stato autore sulfureo e divisivo e allegramente sovversivo, fino dalle prime scorribande anarco-surrealiste nella Spagna anni Trenta con il sodale Salvador Dalí. Nato rivoluzionario, finito icona globalmente condivisa. Del 1972, Il fascino discreto della borghesia si avvale della sceneggiatura del fedele Jean-Claude Carrère ed è un successo enorme anche presso il pubblico (oggi tirerebbe su sì e no un pugno di euro, ma quelli eran tempi in cui anche il pubblico popolare credeva nel cinema alto come segno e mezzo di riscatto-riscossa sociale e culturale, adesso quell’illusione non c’è più). E successo internazionale, confermato dall’Oscar che gli verrà dato come migliore film straniero. Più che una storia, un acido referto e resoconto di una cena in pompa magna che è sempre lì lì per iniziare e mai ci sarà. Secondo quella pratica dell’impossibilià a passare all’azione, del blocco, del differimento coatto provocato da una qualche misteriosoa ragione interna od esterna che Buñuel aveva già mirabilmente teorizzato e messo in cinema in L’angelo sterminatore, di cui questo film sembra essere quasi un clone in forma più sardonica e ironica, e con più (apparente) levità. Con dentro parecchie freudismi intorno a lapsus, atti mancati e differiti secondo quanto scritto dal padre della psicanalisi in Psicopatologia della vita quotidiana. A Parigi due coppie organizzano in un palazzo altoborghese una cena per invitati di rango, compreso un ambasciatore di una equivoca repubblica latinoamericana. Ma il rito, perché di rito si tratta, non riuscirà ad avviarsi, per via di contrattempi, irruzioni improvvise di elementi perturbanti e sabotanti l’ordine, autosabotaggi incosnci. A metaforizzare l’incapacità della borghesia di adempiere ormai al suo storico compito progressivo, e il suo crollo, la sua implosione per consunzione interna. Il che si accordava molto bene con l’onda anticapitalistica, neomarxiana e ferocemente antiborghese che allora agitata l’Europa (che pure non era mai stata così opulenta nella sua storia). Per fortuna il famigerato discorso politico viene ‘portato avanti’ da Buñuel senza proclami e tediose lezioncine à la Brecht, se mai con la sua carica sardonicamente anarco-surrealista, e dunque molto ci si diverte, e si resta ammaliati dall’infinita grazia con cui Don Luis conduce il suo ballo di fantasmi del potere. Con Fernando Rey, Delphine Seyrig, Michel Piccoli, Stéphane Audrane, Jean-Pierre Cassel (papà di Vincent) e la nostra Milena Vukotic quale cameriera dei sciuri attovagliati. Chissà a rivederlo adesso se regge.
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