Recensione: CAPTAIN FANTASTIC di Matt Ross. Troppo piacione per essere un film davvero importante

CAPTAIN FANTASTICCaptain Fantastic, un film scritto e diretto da Matt Ross. Con Viggo Mortensen, George Mackay, Frank Langella, Samantha Isler.
CAPTAIN FANTASTICLa pazza utopia di una padre che alleva i suoi sei figli nei boschi, vis à vis con la natura, per salvaguardarli dal potere corruttivo della (presunta) inciviltà capitalistica. Qualcosa tra Rousseau e il frikkettonismo anni ’60-70, con dentro però un’allarmante carica di fanatismo. Potenzialmente, una grande storia, peccato che il regista Matt Ross la butti sulla commedia piaciona attenuando contraddizioni e lati oscuri. Comunque eccellente Viggo Mortensen (che si è appena preso la nomination ai Golden Globe). Voto 4 e mezzo
CAPTAIN FANTASTICS’era capito subito, fin dalla proiezione a Un certain regard a Cannes lo scorso maggio, che Captain Fantastic sarebbe piaciuto parecchio al pubblico anche oltre il festival. Furono difatti indizi assai chiari ed eloquenti quegli applausi fragorosissimi da parte della platea, che a UCR è composta in gran parte da non addetti dai lavori (come riescano a entrare e a mettere le mani sui biglietti detti invitation non si sa: perché les invitations non sono in vendita, solo elargiti non ho mai capito in base a quali criteri, e se qualche regular di lunga data di Cannes mi chiarisce il mistero, grazie). Partecipazione altrettanto calda alla serata finale, dove a Captain Fantastic fu assegnato dalla presidentessa di giuria Marthe Keller mi par di ricordare il premio per la migliore regia (adesso vado a controllare sul site officiel: ecco, sì, confermato, premio a Matt Ross per ‘la mise en scène’). E invece ricordo molto bene in entrambe le occasioni – proiezione e premiazione – un Viggo Mortensen assai elegante in completo gessato, e un filo invecchiato ma sempre asciutto e nobilmente glaciale, accolto con sincero affetto (Viggo è non solo il protagonista-mattatore del film, quello che lo tiene in piedi dalla prima scena alla parola fine, ma anche il co-produttore). Poi, qualche mese dopo Cannes, arriva il festival, o festa, di Roma, dove Captain Fantastic si porta via il premio del pubblico, a conferma del suo appeal sulle grandi platee. Ma io che a Cannes m’ero precipitato a vederlo sull’onda delle ottime recensioni che aveva ottenuto al Sundance, son rimasto parecchio deluso. Troppo piacione e paraculo, e pericolosamente equivoco per come beatifica in una canonizzazione laico-filmica l’inquietante e prepotente padre padrone (anche se apparentemente molto leftist) al centro della narrazione. Un personaggio cui neppure l’ottimo e sempre adorabile Viggo Mortensen riesce a togliere sgradevolezza. Certo, l’innesco del racconto, l’idea su cui tutto si edifica, è eccellente, e magari ne avessimo di simili nel cinema italiano. Certo, lo script è furbissimo, con battute a rimpallo argute e irresistibili che solo gli americani. Ma Captain Fantastic ha il torto di buttare in commedia piaciona e in risata faccende serie e complicate, come il plagio (o brainwashing) che certi dissennati genitori possono operare, pur mossi dalle migliori intenzioni, su figlioli inermi e impossibilitati a difendersi dalle fregnacce e dalle scelte di vita scellerate loro imposte.
Ben Cash ha deciso (è questo l’innesco di cui parlavo), con la moglie consenziente e temo succube, di fare figli e tirarli su in una qualche parte delle foreste del Nord-Ovest americano (Wyoming?), vis à vis con la natura, anzi standoci proprio dentro da mattina a notte, h24. Tra torrenti, animali selvatici, rocce, strapiombi, fuochi, tempeste, lune piene e notti buie senza luna. Un’utopia sperimentata sulla pelle dell’incolpevole prole, un delirio da comune underground-frikkettonesco-californiana anni ’60-70, con dentro pezzi mal ricombinati di Rousseau e Thoreau. Ovviamente, oltre a sbandierare la sua visione ecoestrema e profondo-verde, Ben ha in spregio il sistema capitalistico soprattutto nella sua variante tardoconsumista, sicché alla progenie – composta di maschi e femmine in pari quantità – è interdetta ogni tecnologia, in primis la televisione, considerata figlia del demonio e veicolo di ogni nequizia. Anche se non se ne parla esplicitamente, immagino che anche vaccini e farmaci siano stati banditi in casa Cash per fare posto a qualche erba o radice o polverina o intruglio da sciamano. Certo, papà Ben vuole un gran bene ai figlioli suoi, al punto da volerli tenere protetti dal mondo sozzo e cattivo là fuori, e dunque niente scuola, se mai ci penserà lui a istruirli in lettere, scienze e pensiero filosofico. Con letture di Dostoievsky e ascolti di Bach, e susseguenti discussioni e ‘seminari’. Risultato: pargoli oscillanti tra i poli opposti di un’ignoranza da enfant sauvage e la saccenteria da enfant prodige. Anche perché papà Ben anziché fargli festeggiare il Natale ha fissato come gran ricorrenza da trascorrere in collettiva letizia il compleanno di Noam Chomsky, guru di ogni resistenza e opposizione al sistema, arrivato alla fama come linguista e diventato solo più tardi uno dei nomi di riferimento dell’alternativismo e leftismo. Che è una trovata di sceneggiatura assai divertente e intelligente, e però vi pare una cosa sensata celebrare Chomsky al posto del bambinello? (per sapere un qualcosa di più del pensiero chomskiano, o chomkista?, si può dare un’occhiata, più che ai suoi ostici testi, al volonteroso film-intervista realizzato un paio di anni fa da Michel Gondry, il quale si industria con encomiabile generosità per tradurre al volgo le oscurità del suo interlocutore ricorrendo anche all’animazione: senza peraltro raggiungere l’impossibile l’obiettivo. Dimenticavo: il film-intervista a Chomsky si chiama Is The Man Who is Tall Happy?). Vero, son tutte cose che al pubblico del cosiddetto cinema di qualità piaccion sempre tanto, e però come si fa ad applaudire il signor Cash anche quando costringe i figli a lottare nel fango e a prove di resistenza fisica pericolosissime, tipo free climbing sotto la pioggia battente con il rischio che cadano e si sfracellino? A me sembra solo un padre disgraziato e nefasto, invece la platea è tutta dalla sua parte. E scusate, non erano considerate di destra e fascistissime e nazistissime certe cose da arditi, certi superomismi, e certe prove di coraggio, e lo sprezzo del pericolo e la performance muscolare? Che poi il signor Ben Cash è pure un teorico e un praticante dell’unione mente e corpo, di intellettualità e azione, secondo una tradizione anche questa assai destrorsa alla Gabriele D’Annunzio, sicché si fatica a capire il caldo applauso al film, e al personaggio, da parte della professoressa democratica che ha pagato il biglietto (ma forse è tutto merito di Viggo, tra i pochi attori a essere credibile sia sul versante figaccione di massima prestanza che su quello dell’engagement intellettuale). Quando però la moglie muore (in un modo che dovrebbe allarmare Ben, e invece lui niente, avanti come prima nella sua pazza utopia), si impone la necessità di ricontattare la famiglia di lei, con cui la rottura era stata completa. Ed ecco allora che si lasciano i boschi per raggiungere in un avventuroso viaggio su furgone variopinto-hippie nonno e nonna (suocero e suocera, se la vediamo dal punto di vista di Ben) laggiù nel Texas, e partecipare con loro al funerale. Naturalmente per il figlio maschio più grande sarà viaggio di formazione e di primo innamoramento e amore, mentre tutti i nodi di famiglia verranno dolorosamente al pettine all’impatto con il nonno, un conservatore genere repubblicano doc del Sud. In questa seconda parte, quando si tratta di raccontare la necessaria resa dei conti di Ben con se stesso e con la realtà, il film sbanda, e il regista Matt Ross (che pare abbia messo nella storia molto di autobiografico, essendo stato allevato nei boschi da una madre frikkettona) si mostra purtroppo non all’altezza. Imprimendo a Captain Fantastic un pendolarismo continuo tra commedia e dramma, senza mai decidersi per il di qua o il di là. Senza mai prendere posizione quando c’è da prenderla (bisogna stare dalla parte del nonno o del padre?), attenuando con troppa benevolenza le colpe del suo protagonista. Il che svela i limiti di una storia che parte benissimo, ma non ha la forza di incrudelirsi e farsi ritratto di una follia totalitaria. Matt Ross ammicca troppo sfacciatamente al pubblico, e per paura di dispiacere rinuncia all’arma della critica e fallisce un film che sarebbe potuto diventare importante.

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