Paterson, di Jim Jarmusch. Con Adam Driver e Goldshifteh Farahani. Al cinema da giovedì 22 dicembre 2016.
(Ripubblico la recensione scritta dopo la presentazione del film lo scorso maggio al festival di Cannes)
Una settimana e un giorno nella vita di Paterson, bus driver e poeta. Che vive a Paterson, posto qualunque del New Jersey. Lui, la sua ragazza che dipinge la casa in bianco e nero, e un cane malmostoso. Vite contemplate più che vissute. Nessuno come Jarmusch sa fotografare il minimo, anzi lo zero. Eppure in questo film zen, squisito come una stampa giapponese, qualcosa non funziona, a partire dall’overdose di poeticismo. Voto 7+
Dopo lo squisitissimo gioco su stili e modi dell’horror vampiresco Only Lovers Left Alive che qui a Cannes qualche anno fa fu una discreta sorpresa, Jim Jarmusch abbandona i generi, il divertissement, e torna pienamente Jim Jarmusch, colui che negli Ottanta fondò il cinema indie subito detto minimalista. Piccole storie, anzi non-storie, ambienti ridotti composti da camera cucina tinello (ma il tinello come categoria anche mentale esisterà in America?), personaggi scarsi, atmosfere tenute a bassa intensità e temperatura a rasentare il grado zero dell’espressività. Cinema che lui sapeva e sa fare come nessuno, il problema è: ha ancora senso farlo? Vedendo questo rarefatto e a momenti incantevole Paterson qualche robusto dubbio si fa strada nella testa e non si riesce ad allontanarlo. Per due ore giuste giuste (ormai la lunghezza media di un film da festival, anche quando racconta come in questo caso, peraltro benissimo, il nulla; e addio misura aurea dell’ora e mezza) vediamo il giovane uomo di nome Paterson – un Adam Driver al solito meraviglioso per sfumature e ombreggiature, dategli subito il premio di miglior attore di questo Cannes 69 – che a Paterson, New Jersey, fa il conducente d’autobus municipali. Dentro però è poeta, se poesie possono essere quelle righe che lui annota su un quadernetto segreto perlopiù la mattina in attesa di partire col suo bus. Minimalismo anche in quello che scrive. Cose di qualunque qualunquità, e in un tono spoglio, scabro, assai cool. Poesie, per dire, come la prima che leggiamo (in sovrimpressione) a proposito di una scatola di fiammifera che lui e la ragazza sua usano, la più bella dell’universo fiammiferi, e avanti con cose così, assai eleganti, tenui e terse come un haiku. Ci può essere un poeta nella tuta blu del bus driver? Certo che sì, soprattutto se ti chiami Paterson abitando a Paterson, New Jersey, che tra le varie celebrità locali annovera anche il gran poeta William Carlos Williams. C’è una piccola hall of fame anzi wall of fame nel bar dove ogni sera Paterson l’austista va a chiacchierare accompagnando a lavoro finito il bulldog assai malmostoso Marvin. Il wall of fame sta alle spalle del bartender, son i ritagli di vecchi giornali e le foto dei famosi che lì han vissuto o ci sono passati, in primis Lou Costello del duo comico Abbott & Costello. Ma, apprendiamo da due ragazzini che sull’autobus si definiscono i soli anarchici in città, Paterson ha ospitato a suo tempo anche Gaetano Bresci prima che tornasse in Italia ad ammazzare re Umberto. Bresci pronunciato più volte Breski, e please insegnate la corretta pronuncia ‘sc’ agli americani.
Da lunedì a lunedì, una settimana e un giorno nella vita di Paterson e della sua ragazza (Goldshifteh Farahani). Con le stesse tappe per ogni giornata, come in un Ricomincio da capo zen. Ecco, lo zen. Non è la prima volta che Jarmusch attinge a questa visione del mondo, e io che non ci ho la vocazione alla sapienza orientale, alla meditazione che si fa vuoto della mente, arranco un attimo dietro a questo Paterson. Ammiro, ma più di tanto non amo. Ci sono momenti alti in cui il cinema del piccolo, del minimo, del vuoto, dello zero produce un qualcosa che ha la levità magica di un palloncino rosso. Ma c’è qualcosa che non funziona così bene. La poesia, troppa, in quantità esagerata, troppo dichiarata ed esibita, e che degenera qua e là in poeticismo. E due incontri casuali con poeti (la ragazzina che ama Emily Dickinson e compone in proprio: a dodici anni!, e il giapponese della penultima scena) son francamente troppi. La ragazza che con Paterson divide la casa e la vita e che fa cose ma non vede gente, è invece una creativa non delle parole, un’artista visuale con il feticcio del bianco e nero, e nelle sue due tonalità dipinge e ricopre tutta la casa, cuscini, tende, perfino il collare del cane e i pancake che poi va a vendere il sabato. Personaggio non così simpatico e francamente pure rompiballe (se non lavori e non porti a casa reddito e ti fai mantenere da un bus driver, non gli chiedi di regalarti una chitarra perché vuoi diventare una musicista country: non si fa), ed è un altro segno meno del film. Aggiungiamoci il cane, un bulldog antipaticuzzo pure lui, che poi, scusate, cani e gattini sarebbe meglio abolirli dal cinema altoautoriale e lasciarli alle zie quando postano su fb. Resta comunque parecchio di questo film apparentemente immobile e percorso da infiniti fremiti a bassa frequenza, dove i climax sono, figuriamoci, l’autobus che un giorno si blocca per guasto elettrico e il cane che si divora una cosa di una certa importanza. Il resto è vita nel suo fluire qualunque. Vita da millennials poveri, creativi, eleganti dentro e fuori. Passaggi e visioni squisitissime di un Jarmusch in stato di grazia, come in certe giapponeserie. E però è difficile sottrarsi a un senso di vuoto vedendo Paterson. Un interno di famiglia non-famiglia dove ognuno cercar di ‘realizzare se stesso’ in un solipsismo narciso. Dove i cani prendono il posto dei figli che non ci sono più, ormai spariti dall’orizzonte culturale. Non è un bel mondo, nonostante la squisitezza e il garbo infiniti di Jarmusch.
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Una risposta a Recensione: PATERSON, un film di Jim Jarmusch. Squisitezze zen-minimaliste