Alps (Alpis – Alpeis), un film di Yorgos Lanthimos. Sceneeggiatura di Yorgos Lanthimos e Efthymis Filippou. Con Ariane Labed, Angeliki Papoulia, Aris Servetalis, Johnny Vekris.
Quando lo vidi a Venezia nel settembre 2011 lo detestai. Ma ancora non conoscevo Lanthimos, ancora non avevo visto né Kynodontas né The Lobster, ero al mio primo impatto con il suo cinema: un continente alieno. Adesso, rivisto Alps alla sua tardiva ma comunque benedetta uscita in sala, faccio autocritica. Questo film, su una speciale agenzia di impersonator di persone defunte a uso dei vivi incapaci di accettare il lutto, è imperdibile e giustamente disturbante. Voto 8
Non ci fosse stato il sorprendente successo al box office di The Lobster (700mila euro in Italia, un’enormità per un film privo di ogni facile appeal che pareva condannato agli zero euri; per non parlare degli incassi americani arrivati alla bellezza di dieci milioni di dollari, e credo che i primi a esserne rimasti sbalorditi siano stati autori e produttori). Dicevo: non ci fosse stato il sorprendente successo di The Lobster mai questo precedente film del greco Yorgos Lanthimos sarebbe arrivato in sala, in qualche nostra sala (a Milano al solito meritorio Beltrade, vera cellula di resistenza filmica dedicata alla difesa e promozione del cinema indipendente), distribuito da Phoenix International, che mi pare etichetta nuova, o sbaglio? (in ogni caso: benvenuti nel mondo del cinema cosiddetto di qualità). Son passati più di cinque anni da quando Alps (o Alpis, o secondo l’originale titolo in greco, Alpeis) apparve in concorso – era il settembre 2011 – a Venezia finendo poi col vincere l’Osella per la migliore sceneggiatura. E io ne scrissi talmente male che oggi – dopo averlo rivisto e essermi ricreduto – mi sento in obbligo di fare qui pubblica autocritica e ammenda, e cospargermi il capo di cenere. Mea culpa, mea maxima culpa. Non vedevo. Non capivo. Ero accecato, ecco. È che era il mio primo impatto con il cinema di Lanthimos, e con la new new-wave ellenica di cui lui e la Tsangari erano, sono, i rappresentanti primi e i fondatori. Ancora non avevo visto di Yorgos Lanthimos il precedente e fondamentale Dogtooth (Kynodontas, ovvero canino, inteso come dente), inaspettato vincitore a Un certain regard a Cannes e poi finito incredibilmente nella cinquina dei nominati al migliore Oscar straniero. Non lo vinse, ovvio – come avrebbe potuto? -, ma ancora oggi certi critici americani lo citano come la nomination più irregolare e spiazzante di tutta la storia degli Academy Awards. Con l’aria di dire: se ce l’ha fatta Dogtooth allora c’è speranza per tutti, anche per il film più arduo e estremo. Ancora non avevo visto The Lobster, che avrebbe mainstreamizzato assai bene e con molto acume, avvalendosi astutamente di un cast internescional, la peculiare visione cinematografica del suo autore. Ancora non avevo visto Chevalier della madre badessa del neocinema greco Athina Tsangari. Ancora non avevo visto altre cose variamente glacial-disturbanti venute dal più fosco cinema degli anni Duemila, nonostante il sole mediterraneo (o forse proprio per quello), come Luton e Miss Violence. Insomma, impattai Alps e mi sembrò di scontrarmi con un Ufo piombato da un qualche continente cinematografico non ancora mappato, e scattò il rigetto. Mi sbagliavo, clamorosamente. Dei tre Lanthimos finora visti – già perché con The Lobster e Kynodontas, intercettato nella rassegna Inediti al Teatro Parenti di Milano, ho poi fatto i corsi di recupero – forse resta il meno riuscito, il più sfrangiato e incerto, ma sempre ben dentro una visione netta e inequivocabile di cinema, e della vita come rappresentazione filmica. Lanthimos, che lo si ami o no (è tra i registi che suscitano più rigetti e repulsioni), è autore dal segno forte, riconoscibile, con il suo andare ossessivamente in cerca di distorsioni e pervertimenti dell’apparente normalità, del suo sfaldarsi nell’ignominia e nello squallore, del suo nascondere istericamente malesseri, patologie della mente, derive nella follia. Un Buñuel riadattato ai disgraziati tempi nostri, alle nostre mediocrità e medietà, del quale condivide un certo senso del grottesco e del paradosso, ma non la grazia, non la levità, non il surrealismo beffardo, e nemmeno l’anarchica distruttività. Tutto è pesante, lercio, caliginoso, irrimediabilmente condannato alla caduta in Lanthimos, in un guardare al mondo di nichilistica disperazione. Con il sovrappiù del racconto di una normalità che scivola nel suo esatto opposto senza che quasi ce ne rendiamo conto, perché Lanthimos (con il suo fedele sceneggiatore Efthymis Filippou) mette in scena minuziosamente e ossessivamente microcosmi altri ma assolutamente coerenti e compatti, mondi a parte in cui lo scostamento rispetto alla medietà fonda a sua volta un’altra e altrettanto compatta medietà. Impassibile, il signore delle tenebre del cinema greco, altera appena le coordinate in cui tutti ci troviamo a vivere creando distopie però qui e ora, nostre contemporanee, come dietro la porta chiusa del nostro tinello, piccoli universi paralleli dominati da (il)logiche ferree e regole a loro modo coerenti benché spostate e sconnesse rispetto alle nostre. A ricordarci come ci voglia poco, anzi niente, a far deragliare i comportamenti e le relazioni tra singoli in una palude melmosa e letale. Basta, come si vede in Kynodontas, bloccare ogni scambio e travaso tra interno ed esterno in una famiglia che le pessime psicologhe definirebbero disfunzionale, basta bloccarla in una dimensione claustrofobica ed ecco che quella casa generatrice di ogni patologia, e dominata da un padre-padrone che ricorda i Mabuse e altri mostri dell’espressionismo tedesco, acquista una sua quieta e vivibile, per quanto vitrea e sinistra, routine. Così nel mondo rovesciato ma perfettamente coerente di The Lobster gli umani vengono trasformati in bestie nel caso non ottemperino alle Leggi Supreme, così nella fetida palestra di Alps, sede e fulcro di un’agenzia dalle strane prestazioni, si attua con diligenza da impiegati di banca una pratica di quotidiano orrore. La puzza di chiuso è un’altra costante di Lanthimos, è l’odore emanato dai suoi corpi in disfacimento o sottoposti a torsioni e torture e costrizioni sadiche, è il tanfo di stanze mai aperte, trasformate in incubatori di bacilli e batteri e virus prima delle menti che della carne. Lo sguardo è sempre tra l’avalutativo e – sta qui l’elemento disturbante – il complice-indulgente verso quei mondi pervertiti, come smontati dal proprio asse naturale e rimontati su un congegno delirante eppure di implacabile funzionamento. Il sospetto è che ci sia un compiacimento di troppo, una pulsione che in altri tempi si sarebbe detta morbosa da parte del regista-narratore-osservatore-testimone a affiondare lui stesso e pure noi spettatori nella melma, ed è questo a prenderci alla gola, non diversamente da quanto succede con la scuola viennese degli Haneke e Seidl, parenti solo più nordici di questa nuova (ex nuova ormai) onda ellenica plumbea e nera da esposizione a troppo sole. Eppure Lanthimos ci ipnotizza, tascinandoci nel gorgo dei suoi disgraziati e sgradevoli personaggi. Chi mai potrà provare un minimo di partecipazione per lo sciagurato quartetto di Alps? Due uomini e due donne, in rigorosa simmetria di genere. Anche se asimmetricamente distribuito è il potere all’interno dell’agenzia chiamata Alps (o Alpis) in cui agiscono. Il capo, che si fa chiamare Monte Bianco (c’è una concettosissima spiega del perché il gruppo si sia dato quel nome, e ognuno si sia scelto come nickname quello di un picco della catena), tratta gli altri ma pure se stesso con un’inflessibilità da kapò (con tanto di opunizioni corporali a chi disobbedisce o non è all’altezza). È lui a stabilire se e come, quando e dove gli altri debbano compiere il lavoro per cui l’agenzia si è costituita, quella di impersonator di persone defunte. Ovviamente su ingaggio e dietro pagamento da parte di congiunti o amici dei morti, ansiosi di medicare il loro senso di perdita con quella finzione. Una delle due ragazze è continuamente bocciata, incapace com’è a far da nipote rediviva, anzi mai-morta, a un nonno disperato, l’altra invece, di mestiere infermiera d’ospedale, è attivissima e eclettica, pronta a recitare più ruoli anche assai diversi tra loro. Ora, già questo trafficare con la morte e farne commercio, trasformando per finzione i defunti in sempre-vivi in una sorta di zombizzazione psichica, è assai sgradevole, aggungeteci che Lanthimos non ci risparmia nulla, nemmeno scene di un sesso sepolcrale, se non proprio necrofilo. E che ambienti, Dio mio. Case borghesi e middle class polverose e bacate, c corrose, smangiate da tarli e tarme. Un negozio di lampadari, dove l’infermiera cui tocca di impersonare la moglie (o fidanzata) defunta del titolare, si aggira sunnambolica imparando la classificazione merceologica di quanto esposto, e sottoponendosi a furiosi cunniliungus per cui deve fingere entusiasmi e trasporti. Ma il focus è perlopiù su due genitori che hanno appena perso per incidente la figlia promettente tennista, che verrà prontamente sostituita, e brillantemente, dalla scatenata infermiera (è Angeliki Papoulia, attrice-feticcio di Lanthimos e del nuovo cinema greco tutto). Si vorrebbe distogliere lo sguardo ogni tanto, ma non ce la si fa, si resta avvinti a questa macabra e laida cerimonia di vivi-che-fanno-i-morti e di morti-che-ritornano-attraverso-i-vivi, come ipnotizzati dalla Medusa (ah, la Grecia e i suoi miti). La ragione che mi ha fatto rivalutare Alps alla ri-visione cinque anni dopo è forse la stessa che mi aveva allora procurato disgusto. È lo spettacolo del Male al lavoro, dell’assenza di ogni morale, dell’esplosione e distruzione di ogni freno etico e razionale. È la discesa negli abissi sporchi e celati. Disturbante, fors’anche ignobile ma pure, insieme, salutare lezione, indispensabile monito e memento sui nostri lati oscuri. C’è meno coerenza che in Kynodontas, Alps resta spesso indeciso su quale direzione prendere, e il finale è alquanto confuso (del resto, anche la seconda parte di The Lobster non è all’altezza della prima). Ma quando ci mostra come la recita della morte, che è anche la coazione a rimuoverla e dimenticarla in una falsa vita senza fine, possa creare dipendeza e alterare gli equilibri di chi quella rischiosa recita pratica, Alps riprende quota e ritorna a essere il grande, indispensabile film della sua prima ora. La ragazza apparentemente inadeguata che poi si rivelerà trionfatrice sulla collega-rivale infermiera, è la meravigliosa Ariane Labed, attrice franco-greca vincitrice anni fa a Venezia di un premio come migliore attrice per Attenberg di Athina Tsangari e poi a Locarno per Fidelio, vista anche nel bellissimo Before Midnight di Richard Linklater. E adesso sui nostri schermi, quasi irriconoscibile, con il volto dipinto e nascosto da arabeshci all’henné, nel brutto Assassin’s Creed di Justin Kurzel: è la compagna-complice dell’eroe protagonista durante la sua fase quattro-cinquecentesca. Tenetela d’occhio, è un’attrice da non trascurare. (Momento massimamente inquietante: la discussione su Prince; quando vedrete la scena tenete conto che il film è stato girato nel 2010).
Ripropongo la mia prima recensione di Alps, scritta il 3 settembre 2011 dopo la sua presentazione in concorso al festival di Venezia.
A oggi, il peggior film tra quelli in corsa per il Leone. No, mi correggo (ci saranno altre autocorrezioni strada facendo): il più irritante. Di una sordidezza, di una turpitudine che sembra lordare tutto: i personaggi che si muovono sullo schermo e, purtroppo, anche il povero spettatore che ha avuto il torto di andarlo a vedere, questo Alpis. Si gira con abbondante uso di camera a mano, dunque con inquadrature tremolanti e mal messe a fuoco, a sottolineare signora mia che quanto vediamo è vita vera, sofferta, captata, catturata al momento, e dunque se c’è qualche sconcezza di troppo, e qualche assurdità di troppo, è colpa della vita che è quella che è. Siamo in un film greco, siamo in una Grecia per nulla solare ma livida, probabilmente più macedone-balcanica che mediterranea, di tristezza e squallore inauditi, e poi dicevano del povero Anghelopoulos, ma questo signor Yorgos Lanthimos lo batte in tetraggine, e di molto.
Si parte da una buona idea, diciamo di surrealtà-fantascienza umana tipo La decima vittima di Elio Petri. Un gruppo di disgraziati-furbastri ha la bella idea di mettere su un’agenzia (la chiameranno Alpis, da qui il titolo) di impersonator molto speciali. Chi ha appena perso una persona cara può rivolgersi a uno di loro, dietro pagamento si intende, e chiedere che reciti la parte del defunto (o defunta), si cali nei suoi panni e nella sua testa, ricrei agli occhi del committente quella persona che non c’è più. Ecco, come James Stewart che in Vertigo ingaggia la commessa Kim Novak e le fa fare la parte dell’amata persa per sempre. Solo che Lanthimos non è Hitchcock, purtroppo. Pensare che il signor Lanthimos è approdato qui al Lido dopo il successo del suo Dogtooth (Canino), premiato a Un certain regard a Cannes e arrivato addirittura in nomination Oscar come migliore film straniero. Ma purtroppo sciatteria e approssimazione in Alpis abbondano, spacciate però per scelta estetica e stilistica. Mica ci si cura dei dettagli, quelli sono cose da cinema di genere, da cinema mainstream, mentre qui se non lo si fosse capito siamo dalle parti del Cinema Alto e della Sperimentazione. Dunque, non fa niente se la tizia (di professione infermiera) che deve interpretare agli occhi dei poveri genitori in lutto una ragazzina tennista appena morta ha almeno il doppio degli anni di lei, non le assomiglia per niente, e sembra la zia della defunta. E quando balla nella stanzetta ci si tringe il cuore, non per la commozione, ma per l’imbarazzo. Così è, in Alpis, e i due genitori devono pure pagarla, roba da matti. Altra storia: la signora cieca che paga uno perché faccia rivivere il marito, e nel prezzo sono compresi i baci che lei (che ha una quarantina d’anni più dell’impersonator) pretende da lui. Come si sarà capito, il lavoro rischia di scivolare nella prostituzione alla Belle de jour. Difatti l’infermiera, che chissà perché del gruppo è quella che lavora di più, a un certo punto accetta di far l’amore con un cliente (recita la parte della fidanzata morta), contravvenendo alle ferre regole stabilite dal capo dell’agenzia, sarà per questo punita e licenziata. Ma mica è facile staccarsi da un lavoro così, e quindi lei continua a impersonare morti, anche se nessuno la vuole più pagare. E l’apice del sordidume è quando si mette in testa di far rivivere la mamma scomparsa e dunque tenta l’approccio sessuale col papà.
Sì, capiamo che si tratta di cinema disturbante e perturbante, capiamo che si tratta di un apologo sul fascino oscuro della morte, e sulla dipendenza che la frequentazione della morte può innescare. Ma basta a farne non dico un grande film, ma un film? L’unica consolazione è vedere, purtroppo sprecata in una parte-non parte, Ariane Labed, una delle più belle ragazze in circolazione sugli schermi, e tra le più talentuose, per intenderci la Labed è colei che l’anno scorso si portò via qui a Venezia a sorpresa il premio come miglior attrice per Attenberg. Quando c’è lei il film si illumina di colpo. Peccato che non la si veda quasi mai e ci facciano sempre vedere l’orrida infermiera che, chissà perché, sembra esercitare un fascino sinistro e calamitoso su qualsiasi maschio le capiti a tiro.
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