Il capitale umano di Paolo Virzì, Rai 3, ore 21,15. Venerdì 20 gennaio 2017.
Ripropongo la recensione scritta all’uscita del film.
Il capitale umano, un film di Paolo Virzì. Sceneggiatura di Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì. Libero adattamento del romanzo Il capitale umano di Stephen Amidon (Mondadori). Con Fabrizio Gifuni, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Giovanni Anzaldo, Matilde Gioli, Gigio Alberto, Guglielmo Pinelli, Bebo Storti.
Ma allora com’è il film più sanguinosamente discusso degli ultimi tempi?
I segni meno: l’inverosimile ambientazione in una Brianza falsissima e immaginaria; l’incapacità (cronica del nostro cinema) di descrivere credibilmente il mondo del denaro e della borghesia.
I segni più: la storia-thriller funziona e il colpo di scena è ottimo; la narrazione dei fatti da tre punti di vista diversi è sofisticata e, per un film italiano, coraggiosa.
Bilancio:prevalenza dei meno sui più.
Voto: 5 e mezzo.A questo punto per parlare di Il capitale umano, di cosa sia davvero o, meglio, di come appaia nella sua immediatezza a chi lo guarda, bisogna impugnare il machete e sfrondare tutte le incrostazione che nelle ultime due settimane si sono depositate e essiccate sul suo povero corpo filmico. Corpo usato e maltrattato, abusato e strattonato da tutte le parti (ideologiche, politiche) per sostenere ora questa ora quella visione del mondo, anzi diciamo – derubricando e riducendo – questa o quella visione dell’italian capitalism. Capitalismo disumano per chi ritiene che il solo far soldi, o desiderare di farne, o darsi da fare per guadagnarne, sia peccato mortale antisociale, non avendo costoro mai letto, temo, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Secondo il quale (semplifico un attimo) il capitalismo sarebbe nato in ambito calvinista dalla spinta del singolo a cercare nel proprio successo professionale ed economico, e nella ricchezza conseguita, la prova della salvezza della propria anima. Il successo, e il denaro, non come dannazione ma, al contrario, conferma del proprio impegno. L’esatto contrario della visione vetero-marxiana o solidaristico-sociocattolica che nel denaro individua la prova della colpa, del male, della mani sporche di fango o di sangue. Visione cui soggiace il film di Virzì, dove in ogni scena sembra di risentire il gaberiano “i borghesi son tutti dei porci”. Borghesi maledetti, infami, “lerci” (sempre Gaber).
Ai tempi in cui all’università lessi quel Weber la docente che me l’aveva prescritto, una signora oggi schierata con decisione sul fronte democratico, commentò che una delle poche aree in cui il calvinismo, e con esso l’etica del lavoro, era riuscito a penetrare in Italia (o almeno a lambirla), era stata la Brianza. Ecco, la Brianza. Ci siamo. Siamo arrivati al punto rovente delle polemiche di questi giorni. Virzì sciaguratamente (e continuo a chiedermi il motivo) ha detto di aver scelto per il suo film proprio quella fetta di Lombardia a nord di Milano stretta tra i due rami del lago di Como perché gli pareva fosse lo sfondo ideale per la sua storia di avidità, di finanzieri e immobiliaristi, speculazioni, inganni, truffe, denaro corruttore, semplici di cuore e idealisti spazzati via dai cinici signori del quattrino. Brianza terra di barracuda. Vero è che Virzì ha aggiunto di non conoscerla, per lui trattasi di terra esotica e, se ho ben capito, di una specie di astratto luogo letterario, anzi dello spirito, o di ciò che dello spirito è la negazione, la materia bruta. Subito si è scatenata la polemica di un leghista a difesa della Brianza sana e lavoratrice ecc. che nulla avrebbe a che fare con quella descritta, o meglio immaginata, in Il capitale umano. Ora, non mi schiero con i signori del Va’ pensiero e della cravatta verde, dico però, essendoci io nato in Brianza e conoscendola bene, e conoscendo bene chi ci abita, che Virzì ha toppato clamorosamente, scambiando quella che è diffusa e meritoria etica del lavoro per ottusa e rapace avidità. Ma son dell’idea che un regista abbia il diritto di pensarla come vuole e di inventarsi la Brianza che vuole, arrivando anche a dipingerla come terra di serial killer, why not? Quello che mi ha urtato è altro, sono la sciatteria e l’approssimazione con le quali in Il materiale umano la povera Brianza vien descritta e messa in scena. I dettagli incongrui, il tirar via. L’ho scritto subito dopo aver visto il film in anteprima stampa (il 19 dicembre per l’esattezza), e dunque parecchio prima di tutte le polemiche che sarebbero deflagrate: fa ridere quel fintissimo accento lombardo con cui parlano il Bernaschi-Gifuni e l’Ossola-Bentivoglio e che non è dato in natura, non è mai esistito né a Milano né tantomeno in Brianza, ma è solo il lombardo così come lo parlavano nei film di Cinecittà anni Sessanta i cumenda; non fa ridere ma fa incazzare per l’imprecisione che in un paese brianzolo come quello in cui abitano i Bernaschi del film, e correttamente battezzato Ornate (riecheggiando i veri Cornate, Ornago, Carnate), si legga La Prealpina che, ci voleva niente a informarsi, è giornale stampato a Busto Arsizio e ha come area di diffusione il Varesotto. Mai visto nessuno in Brianza che se lo leggesse. E via così. Ora, era proprio tanto difficile informarsi un attimino, fare un salto da Roma fin lassù e prendere nota? Se poi si gira il film, come si è fatto, a Como e nel Varesotto, non c’è mica niente di male a spacciarli per Brianza, basta che nella finzione tutto si tenga e sia coerente. Cosa che in Il capitale umano, ripeto e insisto, non è. Qualche amico di fb mi ha scritto che non è così importante, che qualche approssimazione è scusabile, che insomma mica dobbiamo star qui a stabilire col righello i confini tra Brianza, Comasco e Varesotto e suvvia l’arte è arte e il film va giudicato per quello che è, mica per simili quisquilie. No, scusate, non voglio mica fare il localista, ma proprio Virzì mi fa questi svarioni? Lui che ha cominciato come cantore della piccola patria livornese, e vorrei vedere come reagirebbe se qualcuno, ambientando un film nella sua Livorno, mettesse in mano alla gente un quotidiano di Pisa (sì, lo so che non c’è un quotidiano di Pisa, ma ci siamo capiti, no?).
Adesso però basta con gli extra e, usando il machete di cui sopra, facciamo pulizia di tutto il sovrappiù e il superfluo e andiamo a parlare del film. Il quale è un thriller, un buon thriller, tratto da un romanzo dell’americano Stephen Amidon ambientato nel Connecticut. Qui nella versione italiana e pseudobrianzola diventa una storia di stangate e controstangate, di truffe e vendette, di ignobili segreti e di ricatti, mantenuta però nei modi e nelle apparenze della commedia italiana, quindi caratteri un po’ appiattiti e bidimensionali a sfiorare il cliché e la maschera, l’eterno vernacolismo, la tendenza sdrucciolevole verso il comico anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Però Virzì sa costruire, girare e dirigere gli attori, non ce n’è, ed è un narratore, uno storyteller di nerbo, nel solco della nostra commedia migliore (ma questo si sapeva, lo avevamo visto nei suoi film precedenti). Stavolta mi pare alzi il tiro e cerchi di realizzare il suo progetto più ambizioso. Il tasso comedy è ridotto rispetto al suo solito, sale quello del dramma, anche del melodramma e (purtroppo) anche dell’apologo social-moraleggiante. Una storia corale, multifocale. Un immobiliarista in piena crisi economica, un finanziere-speculatore alla Madoff con villa appunto in Brianza, la moglie di lui bovaristicamente insoddisfatta e con aspirazioni intellettuali pronte ad esplodere, il loro figlio bamboccione viziato e Suv-dotato. Ancora: la figlia tosta e punkeggiante dell’immobiliarista già fidanzata al bamboccio dei due ricchi, il di lei attuale ragazzo sospetto di tossicodipendenza, la compagna dell’immobiliarista psicologa Asl. Più altri personaggi collaterali. La sua commedia umana e disumana Virzì la orchestra bene. Massima fluidità nei raccordi e snodi, sapienza nella messa a punto dei caratteri anche minori (lo zio strafatto e spacciatore, l’antiquaria). Ci sarà un incidente, ci scapperà il morto. È intorno a questo fattaccio che tutti i personaggi verranno a collidere, che le loro traiettorie si intersecheranno ridisegnando i destini di tutti. Con un colpaccio di scena da vero, ottimo thriller. L’aspetto più rimarchevole del film sta nella sua struttura, non nuova, certo però piuttosto coraggiosa per un film italiano rivolto a un pubblico non di nicchia. I fatti sono raccontati tre volte da tre punti di vista diversi. Si parte con quello di Dino Ossola, l’immobiliarista (Fabrizio Bentivoglio), tocca poi a Carla Bernaschi, la sciura (Valeria Bruni Tedeschi), si finisce con la versione di Serena, la figlia di Ossola (Matilde Gioli, un’attrice giovane di carattere che ricorda un po’ la brianzola Maddalena Crippa). Man mano lo spettatore scopre ulteriori tasselli finché il puzzle si compone, e la verità è svelata. I tre segmenti sono davvero benissimo scritti, con dettagli che si incastrano alla perfezione, e con scene riviste e rifatte senza una sbavatura dai diversi punti di osservazione, e non so se questa struttura ardita sia del romanzo originale, che non ho letto, o sia tutta merito degli sceneggiatori del film (qualcuno mi illumini, grazie; non fatemi leggere il libro che non è in cima al momento alla mia list). Un’operazione narrativamente sofisticata e insolita per il nostro cinema audience-oriented. Molte sequenze sono notevoli, come quelle della festa a scuola, un istituto privato che un po’ ricorda ai milanesi come il qui scrivente il Leone o il San Carlo. Il materiale umano non funziona quando ritrae vizi e vezzi della borghesia, ma questa è un’incapacità antica del nostro cinema, da sempre più a suo agio con il piccolo borghese e il popolare, se non addirittura il plebeo. Le riunioni del fondo investimenti (o quello che è) del Bernaschi procedono per formule verbali schematiche e stereotipate (mai però al livello tremendo di quelle analoghe di Tulpa di Zampaglione), e risulta inverosimile che uno come l’immobiliarista Ossola affidi i suoi soldi a chi gli promette il 40 per cento, ma quando mai? ma dove? Siamo alle solite, ecco. Quando il cinema italiano se la deve vedere con i ricchi e il mondo del denaro suona subito falso. Non tornano nemmeno altri conti. Penso alla già cultistica scena in cui la Bernaschi aspirante mecenate e l’intellettuale gauchiste cui lei vuole affidare il teatro restaurato, si toccano e avvinghiano guardando estasiati Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene (ah, fosse ancora qui). Da quanto si dicono par di capire che il film alla sua uscita li segnò entrambi per sempre e indelebilmente. Solo che NSDT è del 1968 e i due non dovevano nemmeno essere nati. Alla fine, facendo la sommatoria dei segni più e meno, mi sembra che in Il capitale umano prevalgano i secondi, e non è mica la prima volta che mi capita con Virzì (è stato lo stesso con La prima cosa bella e Tutti i santi giorni).
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