Recensione: NEBBIA IN AGOSTO, un film di Kai Wessel. Un altro Olocausto

NEBEL IM AUGUST"Nebel im August"Nebbia in agosto, un film di Kai Wessel. Da libro omonimo di Robert Domes. Con Sebastian Koch, Ivo Pietzcker, Fritzi Haberlandt, Henriette Confurius, David Bennent, Karl Markovics.
"Nebel im August"Germania, primi anni ’40. Un ragazzino di nome Ernst, considerato un elemento asociale, finisce in una struttura psichiatrica che, dietro alle apparenze terapeutiche, è un luogo deputato all’eutanasia dei disabili. Un altro delirio criminale del Terzo Reich. Un film tedesco che riporta a galle e, ebbene sì, alle nostre coscienze, un massacro non così conosciuto e raccontato. Onesta fattura televisiva, non priva però di momenti notevoli che ricordano certo cinema della crudeltà e la grande stagione dell’espressionismo. Da vedere, e non solo perché il 27 gennaio è il Giorno della memoria. Voto 7
"Nebel im August"Sì, film da Giorno della memoria (anche se immesso nelle sale la settimana precedente). E però stavolta si va a raccontare un aspetto meno indagato, più nascosto, se possibile ancora più rimosso, del delirio criminale del Terzo Reich e dei suoi uomini, quelli che stavano ai vertici e quelli che stavano in basso: la messa a morte programmata tramite eutanasia di disabili, variamente diversi o solo socialmente marginali. Dunque ritenuti disintegrabili e eliminabile nel nome di una purezza etnico-razziale e di una salute pubblica elevata paranoicamente a totem. Nebbia in agosto si basa su un libro (di Robert Domes) che ricostruisce la vera storia – che è poi una salita al calvario e una discesa nei gironi della follia fatta sistema -, di Ernst Lossa, ragazzino considerato un ribelle irrecuperabile e mandato, dopo un passaggio in un istituto correzionale, in una struttura per bambini e ragazzi disabili psichici. E che, spacciata per luogo terapeutico, è in realtà una tappa, un’area di attesa, prima dell’eutanasia. Siamo in Baviera. Ernst, orfano di madre e con un padre venditore ambulante e senza fissa dimora (appartengono, i Lossa, alla comunità degli jenische, detti anche zingari bianchi, di etnia tedesca ma considerati al tempo del Terzo Reich razzialmente inferiori e impuri, e perseguitati al pari dei Rom), arriva nella clinica-asilo retta dall’ambiguo dottor Veithausen. Medico dai modi suadenti e civili, in realtà un aguzzino pienameente attivo nel programma di eliminazione dei disabili. Tocca a lui stabilire chi dei ricoverati deve ssere mandato nel vicino ospedale dove viene praticata l’eutanasia tramite somministrazione di sostanze letali e chi temporaneamente tenere in vita. Ernst è un ragazzo sveglio, intuisce presto quali sono i pericolo per lui e per gli altri, non si fa ingannare dai modi del dottore, attua una sua forma di resistenza. Unica sua alleata un’inferniera di profonda fede cattoica che, pur sapendo dell’eutanasia, cerca (si illude) di salvare e proteggere più vite possibili. La situazione precipita quando il vicino ospedale sospende, per ordini superiori, per non dare troppo nell’occhio, per non allarmare l’opinione pubblica che qualcosa ha intuito, il programma di eliminazione. Sicché tocca al dottor Veithausem, coadiuvato da un’infermiera complice, procedere nel suo istituto all’eutanasia dei ricoverati, partendo da quelli con le più accentuate disabilità. Ma c’è Ernst, che cerca come può di sabotare l’ingranaggio.
Nebbia in agosto non è un capolavoro, concede troppo nella sua forma e nel suo linguaggio alla maniera veterotelevisiva con relative semplificazioni, soffre del suo fin troppo esibito intento didascalico. La narrazione è priva di azzardi, con certe sottotrame -come l’infatuazione di Ernst per una ragazzina -non così necessarie. Eppure nei momenti più alti circola un’aria da cinema della minaccia allarmante al punto giusto. Il mellifluo quanto diabolico dottor Veithausen (un Sebastian Koch ormai specializzato in ruoli di massima ambiguità, vedi Il ponte delle spie e il francese In nome di mia figlia) ricorda i mostri di tanti film espressionisti, da Caligari a Mabuse. Gli stanzoni affollati di malati fan pensare a certo cinema della crudeltà anni Sessanta-Settanta, tra il Marat-Sade di Peter Weiss portato sullo schermo da Peter Brook e L’altra faccia dell’amore di Ken Russell. E assistendo alla disperata richiesta dell’infermiera (quella buona, non l’infermiera-killer) al suo vescovo perché la Chiesa intervenga a fermare quella silenziosa strage, si sentono gli echi di Il vicario di Rolf Hochhuth. Il film procede, implacaile, verso il suo epilogo annunciato, riuscendo a inocularci la giusta dose di disagio e rabbia (e ci si fanno le domande di sempre: com’è potuto succedere? come ha potuto la Germania? e se succedesse di nuovo?). Vale la pena andarlo a vedere, e non solo come formale omaggio al Giorno della memoria.

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