Berlinale 2017. I 5 film che ho visto domenica 12 febbraio (Pokot; Viceroy’s House; Una Mujer Fantastica; 1945; Al-Sabar)

1945

1945

1) Pokot (Spoor), un film di Agnieszka Holland. Competizione.
Qul maledetto intruglio. A oggi, il peggio visto a questa Berlinale. Un film che cavalca la vague animalista e vegana ormai trionfante e incontenibile cavandone fuori una storiaccia da distopia polacca, in un presente appena appena alterato a prefigurare un possibile vicino futuro, il tutto una zona tetramente boschiva tra Polonia e Repubblica Ceka. Io che detesto la messaggistica ecosostenibile in tutte le sue varianti pauperiste e decliniste e neofrancescane e considero il fenomeno vegano un qualcosa che ha più a vedere con pulsioni irrazionali, ansie salvifiche, oscuri sensi di colpa e bisogni di redenzione che con la salvezza del pianeta, ho molto, molto sofferto vedendo questo Pokot. Film peraltro di una regista sperimentata e internazionalmente conosciuta coma la Holland che qui, tornando a lavorare in patria, mostra i muscoli, tirando fuori l’indubbio mestiere accumulato su tanti set, ma anche una certa rozzezza, una certa mancanza di finezze e sfumature. Con un tocco da fabbroferraio che sega ogni traccia di ambiguità. Con una protagonista genere lesbo-esteuropeo da stagione delle trattoriste sovietiche (era ingegnere costruttrice di ponti in Siria e Libia, ai tempi dell’Urss ancora imperante ed esportatrice di tecnologie nei paesi fratelli e amici). Adesso Duszejko, così si chiama, è retired, vive in una casa in mezzo al bosco come le fate e le streghe con due cani (femmine, of course), insegna inglese alle medie, soprattutto è la nemica dichiarata dei molti cacciatori del villaggio. Che sono una cricca, una cosca unita da complicità e perfino qualche segreto inconfessabile. La divisione tra i buoni e cattivi è stabilita, e la partita va a cominciare. Da una parte i perfidi in quanto cacciatori – tra loro anche sindaco e parroco – dall’altra i crociati pro-natura e pro-animali, capitanati dalla ingegnera. Ci sarà una serie di morti tra i cattivi, teste fracassate, ferite orrende, tanto che il ramo ecologista-animalista-vegano del paesello adombra l’ipotesi che siano stati gli stessi animali a vendicarsi dei loro carnefici (“Ma non vedete? le uniche orme qui sulla neve vicino al cadavere sono di un cervo!”). L’altra ipotesi invece è che ci sia un serial killer che vuol vendicare la natura sfregiata. In mano a una regista più sottile il film avrebbe potuto assumere un che di inquietante distopia vicina (la rivolta degli animali), o indurre una qualche sana riflessione sui fanatismi cui le buone cause e le migliori intenzioni possono portare. Invece abbiamo un thrilleraccio agreste con una musica da denuncia. Voto 3

2) Viceroy’s House, un film di Gurinde Chanda. Competition (Out of Competition)
Colossalone epico su una svolta cruciale del Novecento, la ‘Partition’ dell’India già britannica in due stati fieramente rivali, l’India così come la conosciamo e il Pakistan, la prima a prevalenza hindu, il secondo musulmana. Un tempo cose così le produceva la Gran Bretagna con l’aiuto di Hollywood, penso a Lawrence d’Arabia, Le quattro piume, 55 giorni a Pechino, adesso se le permette solo Bollywood. Certo, perché Viceroy’s House è storia patria da ricordare e celebrare, ma anche perché quella di Bombay (scusate, ma continuo a preferirlo all’induisticamente corretto Mumbay) è l’unica cinematografia che ancora rischia soldi sul genere storico avendo un pubblico che lo apprezza . Ma c’è anche un che di Gran Bretagna qui dentro: parte dei finanziamenti, alcuni attori, la regista Gurinder Chada, di origine indiana ma inglese (Sognando Beckham), la più adatta con la sua doppia identità a affrontare l’mpresa. Il vicerè del titolo è l’ultimo degli inglesi che si sono succeduto in India nei tre secolo di possesso coloniale, è Lord Mountbatten, è cugino della futura regina Elisabetta, ha come compito quello di chiudere la pratica, di liquidare l’India coloniale, di avviarne l’indipendenza. Siamo nel 1947, e il vicerè se la deve vedere con la spaccatura tra hindu e musulmani. Una di quelle faglie culturali implacabili così ben analizzate da Samuel Huntington nel suo Scontro delle civiltà. Una convivenza pacifica sotto il segno della democrazia nascente sarebbe la soluzione ideale, ma quanto sta succedendo spinge nella direzione opposta. Gli scontri, gli attacchi tra le due etnie si susseguono causando massacri su entrambi i fronti (con di mezzo spesso un’altra minoranza, quela dei Sikh). I musulmani vogliono uno stato loro, ricavato dalla parte occidentale e dal Bengala, e chiamato Pakistan, gli indiani vogliono un’India propria, quasi momoetnica, depurata il più possibile dei musulmani. Il film si muoe su due livelli, quello della Storia maggiore, con Lord Mountbatten e la moglie Erwina, donna inteligente e battagliera che si ritaglia un ruolo attivo nei complicati avvenimenti (lei sarebbbe per la soluzione conservativa, ma avrà la peggio, quando Churchill deciderà per la divisione sotto la pressione dei leader dei due schieramenti, Jinnah e Nehru. Con Gandhi a fare il grande saggio senza entrare nel fuoco dello scontro, diciamo pure senza compromettersi). Son migrazioni di milioni e milioni di persone, hindu che scappano dall’area ormai solo musulmana, musulmani che lasciano l’India dominata dagli induisti dopo i pogrom di cui son stati vittima. E a morire in questa doppia pulizia etnica saranno milioni. L’altro piano è quello di una storia d’amore Romeo-e-Giulietta tra un ragazzo hindu e una musulmana, ed è nei suoi eccessi sentimentali e nei suoi languori è la parte bollywoodiana più riconoscibile e quella che più concede alla platea nazionale. Qua e là troppo ingenuo e anni Cinquanta e soappistico per convincere lo smagato pubblico d’Occidente, figuriamoci le platee stampa di un festival. Ma l’ultima mezz’ora, con quelle vite triturate dal Grande Gioco della politica internazionale (si scoprirà che dietro alla ‘partition’ ci sono anche i sovietici, e l’interesse dell’Occidente a tenersi buone le nuove potenze petrolifere musulmane) ha una sua nobiltà. Il film, cinematograficamente abbastanza qualunque, ha almeno il merito di riportare all’attenzione collettiva un passaggio epocale. Difficile però che conquisti i mercati occidentali. Voto 5+

3) Una Mujer Fantástica (A Fantastic Woman), un film di Sebastián Lelio. Competizione.
Se il concorso finisse oggi, questo film cileno uscito dalla factory dei fratelli Larrain vincerebbe a mani basse l’Orso d’oro. Ma non siamo neanche a metà, tutto potrebbe ancora accadere, anche se è ragionevole pensare che Una Mujer Fantástica un premio se lo porterà via, magari quello per la migliore interpretazione femminile. Lelio alla Berlinale deve parecchio, perché è da qui che è tato lanciato (mi pare fosse il 2013) il suo Gloria, poi gran successo su molti mercati e in molti festival. Anche stavolta mette al centro della sua narrazione, e della sua attenzione, una donna fuori dalla medietà elevata a protagonista assoluta, sempre in scena. Una donna che si chiama Marina Vidal, cameriera in un ristorante di Santiago, ma con sulla carta d’identità ancora un nome maschile. Una donna nata uomo che ha voluto essere donna. Una transgender, che non si è ancora sottoposta alla fatale operazione. Marina ha un storia fissa con un signore cinquantenne di borghese eleganza e borghesi mezzi economici che, dopo aver fatto l’amore con lei, un sera si sente male. Portato al pronto soccorso, muore: aneurisma. Quel che segue è la solitudine di Marina dopo la perdita del suo uomo, ma anche la solitudine di chi deve vedersela con il pregiudizio, il disprezzo, il sospetto. Si fa viva la famiglia di Orlando, il figlio, la seconda moglie, che esigono, subito, quel che ritengono sia loro, la casa e la macchina. Marina non ha niente, non le è rimasto niente. Trama come si vede a fortissimo rischio di esemplarità, di parabola didascalica sui diritti non riconosciuti degli amori lgbt e transgender, sulla asimmetria rispetto agli altri amori. Ti aspetti da un momento all’altro l’inevitabile spottone sulle copie di fato, sugli omomatrimoni e quant’altro. Ma Sebastian Lelio è un autore vero, e troppo serio per fare della spiccia propaganda, e i fratelli Larrain che producono troppo svegli e avvertiti per incorrere in una cosa qualunqumente corretta. Una donna fantastica vince la sua scommessa puntando sui silenzi e sulla sottrazione, osservando Marina nel suo agire e reagire agli ostacoli che di volta involta le si presentano (la famiglia di lui, la polizia) senza trafsormarla nll’eroina di una lotta per i diritti. Non ci sono slogan, non ci sono militanze gay, c’è solo la vita. Marina si muove per salvguardare la propria dignità,quel minimo di stima in se stessa, e per amore dell’uomo che ha perduto. Solo questo, zero prediche. Nell’ultima mezz’ora la perfetta austerità della messinscena (molte inquadrature frontali, dialoghi misurati e essenziali, retorica assente) si sfrangia in qualche scena non così necessaria. Ma il film tiene avvinti dalla prima all’ultima inquadratura e di sicurò diventerà un succcesso internazionale. C’è solo da sperare che non lo si trasformi in un manifesto e in una macchina produttrice di slogan. Meglio lasciarlo parlare con i suoi modi, la sua lingua, i suoi silenzi. Voto 7 e mezzo

4) 1945, un film di Ferenc Török. Ungheria. Panorama.
Il dopo Olocausto, come in Bye Bye Germany di Garbarski visto qualche giorno fa fuori concorso. Perché i segni lasciati sui corpi e nelle anime di chi dai campi è tornato, e di chi ha collaborato a mandarceli, o per ignavia non ha fatto niente per impedirlo, non si cancellano. Questo emozionante, anche se imperfetto, film ungherese, di un regista sui 40 anni dal capello molto folto e molto fonato non proprio da autore tormentato, girato naturalmente in bianco e nero, assomiglia poco a quanto finora s’è visto sulla Shoah. Riesce a scavare dove ancora non si è troppo indagato e, se ci sono analogie con il polacco Ida, diversi sono il tono e il registro adottato, e il segno è più sporco, rude, la stilizzazione più bassa. Con un’immediatezza e anche un ferocia che ricorda il cinema rumeno più picaresco e meno levigato, quello di Cristi Puiu e Radu Jude. In un villaggio polveroso in un qualche punto della sterminata e pure desolata puszta – siamo nel 1945, la guerra è appena finita , i russi liberatori-occupanti presidiano le strade e si preparano a inghiottire l’Ungheria tutta – arrivano due ebrei tra il severo e lo ieratico. Uno giovane, uno meno. Scaricano dal treno delle misteriose casse. Affittano un carretto e si avviano verso il villaggio. Non parlano, non fanno domande. Chi sono? Cosa vogliono? Perché gli ebrei sono tornati? E dopo di loro ne torneranno altri? Nella piccola comunità le domande si accavallano, e mentre quei due signori severi come angeli del giudizio, silenziosi come vendicatori avnzano implacabili, riemerge tutto quello che è stato sepolto, nascosto, anche se tutti sanno. I misfatti, le vergogne dei buoni cittadini che hanno denunciato ai tedeschi le famiglie ebree, hanno assistito impassibili alla loro cattura e deportazione, hanno arraffato le loro case, i loro negozi, i loro beni. Per questo quei due uomini tornati dai lager o da chissà dive fanno loro paura. Son tornati per conto dei Pollak, dei Weisz, degli altri ebrei del villaggio derubati dai cari vicini cristiani? Rivendicheranno ciò che è stato sottratto? Vorranno essere risarciti in qualche modo crudele, come lo Shylock shakespeariano? Nel nucleo allargato dei colpevoli e dei loro complici le reazioni si sfrangiano, si diversificano. C’è chi, oppresso dal senso di colpa, vorrebbe liberarsi da quel peso, c’è chi è deciso a tenersi tutto quanto ha arraffato, senza restituire niente. Salta un matrimonio, famiglie si sfasciano. I due ebrei se ne vanno così come sono venuti dopo aver adempiuto alla loro missione, che non era quella che gli abitanti del villaggio supponevano e temevano. La Shoah vista dalla parte di chi ha denunciato, tradito, rubato. Un taglio poco praticato finora al cinema, e tocca a un altro giovane regista ungherese, dopo il Laszlo Nemes di Il figlio di Saul, riprendere e e riscrivere in parte il paradigma della rappresentazione della Shoah. Anche se qui non siamo al livello di Nemes. Nella sua prima parte 1945 stenta parecchio ad avviarsi, è confuso e indeciso sulla pista narrativa da imboccare, affolla disordinatamente troppi personaggi, oltretutto con un montaggio non impeccabile. Ma è un film perturbante, vivaddio, che osa e sbanda, e però ti lascia il segno addosso. E quella campagna ungherese percorsa dall’avidità, dalla rapacità, dalle miserie umane ricorda non solo il più livido e sconsolato Bela Tarr ma anche, soprattutto, altri film del passato sull’Olocausto e sull’antisemitismo nell’Europa centrale, film girati nello stesso cupo bianco e nero, negli stessi paesaggi e ambienti polverosi e soffocati: il cecoslovacco Il negozio al corso (allora c’era la Cecoslovacchia) e Il processo di Georg Wilhelm Pabst. E quando vedi – rivedi – i bravi contadini del villaggio raggiungere minacciosi con i forconi i due misteriosi ebrei pensi ai pogrom, a quell’orrendo rito sacrificale che per secoli ha infettato quei paesi, e che forse ancora continua. Voto 7+

5) Al-Sabar (Miraggio), un film di Ahmed Bouanani. Marocco. Sezione Forum.
Ci sono andato perché cerco sempre di vedermi ai festival qualche film arabo. Ci sono andato (anche) perché non avevo nient’altro da fare, un altro film da vedere a quell’ora. E come spesso capita quando ai festival si va a caso, si randomizza, si fa il flâneur senza impegni e senza programmi, ecco che ti capita un piccolo grande incontro cimatografico. Una scoperta. Su Al-Sabar avevo letto frettolosamente le prime due righe e mezza di sinossi senza capirci granché. Mi sono reso conto vedendolo che questo film im bianco e nero del 1980 (ma il tournage cominciò nel 1970), unico lungometraggio di un talento che si chiamava Ahmed Bouanani morto nel 2011 a 73 anni, è di quelle opere che segnano, di quei film-mondo dove ci sta dentro di ogni, che si aprono a mille letture e prospettive, e che diventano via via riferimenti ineludibili e si fanno opera seminale di molte altre future. Al-Sabar per tutti i cineasti marocchini e non solo marocchini è un fulgido esempio da tenere sempre in mente. Un modello ineludibile. Come raccontarlo? 100 minuti di puro cinema dell’inconscio, dell’associazione libera, certo con dentro moltre tracce degli avanguardismi e dei vezzi Sessanta e Settanta, e però molto personale, qua e là ancora straordinariamente vitale e irradiante. Parte come un racconto popolare. Nel Marocco primi anni Cinquanta ancora sotto tutela francese, ancora arcaico nonostante i timidissimi segni di una modernità in arrivo, un povero contadino trova un tesoro in banconote in un sacco di farina. Con la moglie parte per la città con il progetto di usare al meglio quei soldi venuti da chissà dove. Sarà invece l’inizio di un viaggio iniziatico, di un sogno, di un incubo, di uno zigzagante delirio, di una discesa nel fondo di se stesso tra rovine romane, vicoli labirintici e pericolosi, paesaggi desertici e marini, trance collettive, e santoni, artisti, cantanti, predicatori. Nani e ballerini. Con dentro molto (troppo?) Fellini, e Kusturica, e Glauber Rocha, e Pasolini, e l’Orson Welles del Processo, perfino il Monicelli di L’armata Brancaleone. Daloghi tra il sapienzale e il banale quotidiano, resi quasi indecifrabili da folli sottotitoli in inglese. E un occhio straordinario, quello di Bouanani, a cogliere immagini folgoranti. Ecco, Berlinale vuol dire anche questo, ritrovarti in una piccola sala come l’Arsenal attonito a vederti un capolavoro che ti si srotola come una pergamena antica davanti agli occhi, un capolavoro venuto dall’altrove, da un altro cinema. Voto 8

 

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