Una Mujer Fantástica (A Fantastic Woman), un film di Sebastián Lelio. Con Daniela Vega, Francisco Reyes, Luis Gnecco, Nicolas Saavedra. Competizione.
Insieme al giapponese Mr. Long, il miglior film che si sia visto a oggi (lunedì 13 febbraio) in un concorso piuttosto deludente.
Santiago del Cile. Una trans di nome Marina si ritrova ad affrontare il post-mortem del suo uomo, un signore borghese di modi eleganti. E son problemi con la moglie, con il figlio. Senza clangori, senza bandiere da gay pride, senza prediche sui diritti, il regista Sebastian Lelio ci dà il ritratto ravvicinato di una donna che, semplicemente, difende la sua dignità. Voto 7 e mezzo
Se il concorso finisse oggi, questo film cileno uscito dalla factory dei fratelli Larrain vincerebbe a mani basse l’Orso d’oro (l’unico a impensierirlo sarebbe Mr. Long del giapponese Sabu). Ma siamo sì e no a metà festival, tutto può ancora accadere, anche se è ragionevole pensare che Una Mujer Fantástica un premio se lo porterà via, magari quello per la migliore interpretazione femminile. Lelio alla Berlinale deve parecchio, visto che è da qui che è stato lanciato (mi pare fosse il 2013) il suo Gloria, poi gran successo su molti mercati e in molti festival. Anche stavolta il regista cileno mette al centro della sua narrazione, e della sua attenzione, una donna fuori dalla medietà, a modo suo straordinaria. Una donna che si chiama Marina Vidal, cameriera in un ristorante di Santiago, ma con sulla carta d’identità ancora un nome maschile. Una donna nata uomo che a un certo punto della sua vita ha voluto essere donna. Una transgender. Marina ha un storia fissa con un signore cinquantenne di borghese eleganza e borghesi mezzi economici che una sera, dopo aver fatto l’amore con lei, si sente male. Portato al pronto soccorso, muore: aneurisma. Quel che segue è la solitudine di Marina dopo la perdita del suo uomo, ma anche la solitudine di chi deve vedersela con il solito pregiudizio, il disprezzo, il sospetto. Si fa viva la famiglia di Orlando, il figlio, la seconda moglie, che esigono, subito, quel che ritengono sia loro, la casa e la macchina (l’unico a mantenere maniere civili è il fratello: lo interpreta Luis Gnecco, il Neruda di Larrain). Marina non ha niente, non le è rimasto niente. Trama come si vede a fortissimo rischio di esemplarità, di parabola didascalica sui diritti non riconosciuti degli amori lgbt e transgender, sulla loro asimmetria rispetto agli altri amori. Ti aspetti da un momento all’altro l’inevitabile spottone sulle copie di fatto, sugli omomatrimoni e quant’altro. Ma Sebastian Lelio è un autore vero, e troppo serio per fare della spiccia e anche volgare propaganda, e i fratelli Larrain che producono troppo svegli e avvertiti per incorrere in una cosa qualunquemente corretta. Una donna fantastica vince la sua scommessa puntando sui silenzi e sulla sottrazione, osservando Marina nel suo agire e reagire agli ostacoli che di volta in volta le parano davanti (la famiglia di lui, la polizia), senza trasformarla nell’eroina di una lotta per i diritti. Non ci sono slogan, non ci sono militanze gay, non bandiere da gay pride, c’è solo la vita. Marina si muove per salvaguardare la propria dignità, il rispetto di sé, e per amore dell’uomo che ha perduto. Solo questo, zero prediche. Nell’ultima mezz’ora la perfetta austerità della messinscena (molte inquadrature frontali, dialoghi misurati e essenziali, retorica assente) si sfrangia in qualche scena non così necessaria. Ma il film tiene avvinti dalla prima all’ultima inquadratura e di sicuro diventerà un successo internazionale. C’è solo da sperare che non lo si trasformi in una macchina produttrice di slogan. Meglio lasciarlo parlare con i suoi modi, la sua lingua, i suoi silenzi.
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