Berlinale 2017. Ma il film ungherese si merita davvero l’Orso? Commenti e indignazioni sul palmarès

"Pokot" di Agnieszka Holland: premio Bauer

“Pokot” di Agnieszka Holland: premio Bauer

"Félicité" di Alain Gomis: gran premio della giuria

“Félicité” di Alain Gomis: gran premio della giuria

Non sto a ripetere il listone dei premi di questa Berlinale (al mio precedente post li trovate tutti, dall’Orso d’oro in giù, se no andate dritti alla fonte, al sito ufficiale della Berlinale dove potete anche vedere in faccia i vincitori e farvi un’idea: la fisiognomica ha la sua importanza). Vado dunque a commentare, e un po’ a indignarmi, perché nel palmarès ci son premi sacrosanti e altri che gridano vendetta. Come sempre. Come tutti i palmarès di tutti i festival.
Vincono le donne, vince l’animalismo, perde Aki Kaurismaki. Il quale è entrato in conclave da papa e ne è uscito cardinale, as usual: Santa Madre Chiesa ha sempre tanto da insegnare, se solo la si ascoltasse. Arrivato a Berlino come superfavorito, accolto con un’ovazione alla proiezione stampa dai suoi devoti, il gran finlandese è stato in testa a tutti i pronostici fino all’ultimo secondo, ma è stato scavalcato nel rush finale da una (semi)sconosciuta signora ungherese come capita a certi campioni al giro d’Italia, e si è dovuto accontentare del premio alla regia. Una sconfitta, inutile girarci intorno. E però The Other Side of Hope non è quella gran cosa, brillantissimo ma pigro, con il suo schema narrativo ricalcato pari pari sul precedente Le Havre. I kaurismakiani duri e puri, gli Aki-addicted si disperano, si strappano le vesti, si ubriacano per dimenticare, ma stavolta se la prendano più che con la giuria con il loro idolo. Invece quante signore nel palmarès. La regista ungherese Ildikó Enyedi, di cui io fino a questo festival non avevo mai sentito parlare (e però mi dicono che qui sia stata più volte ospite), si è portata a casa l’Orso d’oro, e non è uno scandalo, anche se altri meritavano di salire sul gradino più alto al posto suo (il giapponese Sabu, il rumeno Netzer, la portoghese Villaverde). Il suo film è piaciuto subito ed è diventato con il passaparola uno di quelli da vedere assolutamente. Io per la verità non l’ho molto amato, un po’ troppo compito diligente di psicanalisi, anche se l’idea di far incontrare in sogno i due protagonisti quale cervo e cerbiatta ha una sua efficacia, altroché. Ma resta, nonostante i suoi esibiti surrealismi e altri (datati) avanguardismi, nel suo intimo un film sentimentalista, ed è stato quello a non avermi convinto.
Ho detestato Pokot di Agnieska Holland, greve e triviale, a mio parere il peggio del concorso, e invece eccolo insignito del Bauer, il riconoscimento assegnato al ‘cinema che apre nuove prospettive’. Ma perché mai darlo a una signora già molto nota che il cinema progressivo non l’ha mai praticato, figuriamoci adesso. Sarà piaciuta la sua protagonista, un’animalista integralista che ammazza quelli che ammazzano gli animali. Il che deve aver commosso parecchio qualche giurato. Anche il mattatoio dove si svolge la storia di On Body and Soul deve aver fatto la sua parte nell’indignare i giurati e spingerli ad assegnargli l’Orso d’oro. In questo listone di vincitori si porta molto il messaggio. Non solo l’animalismo di Pokot e On Body and Soul. Il cileno Una Mujer Fantastica, Silver Bear per la migliore sceneggiatura, ci mostra  di quali dolori sia fatta la vita di una transgender. Félicité del senegalese Alain Gomis (premio speciale della giuria) ci immette in una bidonville di Kinshasa con una Mamma Roma congolese che lotta come una belva per il figlio malato. Aggiungiamoci il rifugiato siriano espulso dalla Finlandia e costretto alla clandestinità del film di Kaurismaki e ci si renderà conto di come il verdetto della Berlinale 67 grondi di istanze politiche e di issues più di un’agenda dell’Onu.
Il premio di migliore attore a Georg Friedrich per il film made in Germany Helle Naechte rientra nella quota tedesca dovuta (anche a Venezia c’è sempre un premio all’Italia: l’ultima volta no, perché con i tre nostri film del concorso non si poteva proprio). E però lui, come padre alle prese con un figliolo adolescente che quasi non conosce, è bravo davvero, ha una faccia che non dimentichi, e anche qui mica si può urlare allo scandalo (Friedrich è anche più bravo quale amico mattocco in Wilde Maus di Josef Heder, pure in concorso). Sono arcicontento per il premio di migliore attrice alla coreana Kim Minhee, bellissima e dolente, una meraviglia di donna, nel sottovalutato film di Hong Sangsoo (che col tempo crescerà e avrà modo di rifarsi). Meritatissimo, forse il più preciso di tutti i riconoscimenti dati, il Silver Bear a Dana Bunescu per il montaggio di Ana, Mon Amour del rumeno Călin Peter Netzer. Un editing virtuosistico, che crea folgoranti cortocircuiti tra passato e presente, che imprime un ritmo vertiginoso al racconto di una storia d’amore malata e impossibile. Il film è bellissimo, meritava l’Orso d’oro, altro che l’ungherese “cervo meets cerbiatta”, solo che Netzer a Berlino aveva già vinto tre anni fa con Il caso Kerenes e questo lo ha penalizzato. Si rifarà.
Se questo è il palmarès della donne – in testa Ildikó Enyedi e Agnieska Holland – è paradossale che ne sia rimasta esclusa la migliore tra le autrici in concorso, la portoghese Teresa Villaverde, che con Colo ha messo a segno un film che il cinema futuro lo apre davvero, altro che il tremendo Pokot. Ma sono i festival bellezza, sono le giurie. Che difatti neanche un premio minore hanno riservato a Mr. Long del giapponese Sabu. Ma lì, per quanto si tratti di un film colmo di gentilezza vera e non smancerosa, non ci sono animalismi, non ci sono correttismi, c’è solo un killer che protegge un bambino bersagliato dal mondo. Troppo poco per smuovere oggi le giurie.

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