Recensione: UN RE ALLO SBANDO, un film di Brosens & Woodworth. Le vacanze balcaniche del re dei belgi

27942-king_of_the_belgians_413335879_1739543549661619_6477061903391065392_nUn re allo sbando (King of the Belgians), un film di Peter Brosens & Jessica Woodworth. Con Peter Van Den Begin, Lucie Debay, Titus De Voogdt, Bruno Georis.
27954-king_of_the_belgians_212970952_1717088711907103_4720318652176289720_oA Venezia 2016 (sezione Orizzonti) è stato un inaspettato successo di pubblico. Stavolta la coppia assai avanguardistica Brosens & Woodworth realizza un film più accessibile raccontando una storia che si rifà all’eterno archetipo Vacanze romane. Con il re del Belgio, l’ipotetico Nicolas III, a trovarsi per strane circostanze in mezzo al mondo vero e alla gente altrettanto vera. Un’avventuretta nei Balcani girata con garbo ed eleganza, e però quanti cliché e déjà-vu (quei Balcani tutti alcol e spari). E la premessa – la visita del re in una Turchia prossima all’entrata nella Ue – non è minimamente plausibile. Voto 6 e mezzo
27952-king_of_the_belgians_6A Venezia 2016 è stato, a sorpresa, uno dei film più graditi al pubblico, anche se poi la giuria di Orizzonti non l’ha incluso nella mappa dei premiati. Chi mai se l’aspettava una simile accoglienza per un’opera (stavolta bisognerebbe dire operina) di Peter Brosens e Jessica Woodworth, vale a dire la coppia di massima audacia sperimentalista che portò in concorso a Venezia 2012 quel film di allucinate e fiamminghe visioni, tra la danse macabre e il surreale, che era La quinta stagione. Non proprio un prodotto mainstream, che difatti ebbe disagiata circolazione in Italia comparendo in qualche sala per poi subito sparire. Ecco, con quel precedente si prevedeva un altro film ostico, alieno. Invece macché, Brosens & Wodworth si son stavolta convertiti alla commedia – anche se, trattandosi di una narrazione controfattuale e fantapolitica, un che di surrealistico permane – realizzando un qualcosa che rispolvera Vacanze romane e La regina Cristina, colei che, interpretata da Garbo, nella notte abbandonava i suoi palazzi per immergersi en travesti tra il popolino e le sue bettole. Insomma, siamo nell’archetipo del potente separato dal mondo che per una serie di circostanze si ritrova catapultato in quella normalità di vita da cui il suo rango l’ha sempre tenuto lontano, uno schema che abbiamo ritrovato anche qualche mese fa nell’inglese Una notte con la regina dove la giovane Elisabetta e la sorella Margaret attraversano in incognito la peggio e più divertente Londra che festeggia la fine della guerra.
Stavolta a ritrovarsi lontano dal palazzo e tra la ‘ggente vvera’, naturalmente godendoci, è l’ipotetico re del Belgio Nicolas III con il suo entourage. Ora, i due registi (Brosens è belga, nato a Lovanio) immaginano che, in visita a Istanbul per inaugurare una robetta che dovrebbe prefigurare e salutare l’imminente ingresso della Turchia nell’Unione europea, il simpatico re – un signore di quasi due metri, apparentemente svagato ma in realtà prontissimo a captare quel che gli sta intorno – si ritrovi bloccato, impossibilitato al rientro in patria. È che un vulcano islandese (si son portati molto a Venezia, ce n’erano in gran quantità e in eruzione seriale anche in Voyage of Time di Terrence Malick) esplode con tutto il suo carico di lava e lapilli e nubi variamente solforose e tossiche impedendo agli aerei di decollare. Non bastasse, anche il sole impazzisce, con una tempesta di radiazioni mai vista che manda fuori uso la rete telefonica del continente (e però due catastrofi naturali in contemporanea non sono un po’ troppo?). Sicché il nostro Nicolas III non può muoversi dalla peraltro meravigliosa Istanbul, e proprio mentre il suo paese precipita in una crisi politica senza precedenti. La parte francofona, la Vallonia, ha deciso difatti di staccarsi proclamandosi indipendente (scenario fantapolitico ma non troppo: si sa che tra nord fiammingo e sud francofono le voglie separatiste sono fortissime). Fine del Belgio, perdita del trono. L’unica chance per il povero re senza più regno sarebbe di rientrare il più velocemente possibile a Bruxelles e rivolgere un appello alla nazione perché le due parti si riconnettano. Già, ma come si fa con gli aeroporti bloccati per via del vulcano islandese e le tempeste solari? Il piccolo gruppo che gli sta intorno comincia a inquietarsi. C’è il regista inglese incaricato di riprendere il viaggio e cavarne un documentario che una volta si sarebbe detto di propaganda e adesso di promozione della monarchia. C’è, e poteva mancare?, l’addetta all’immagine e alla comunicazione. C’è il valletto personale, un tipo che vien dal popolo e ha in uggia quei fighetti con cui si ritrova, e c’è il severo maestro di protocollo. Ma quell’apparentemente svagato sovrano decide di tornare in patria o quel che ne resta. Non si può volare, non si può nemmeno telefonare? Bene, lasceranno la Turchia e attraverseranno i Balcani via terra in qualche modo. Ma dovranno eludere l’occhiuta sorveglianza dei servizi turchi per niente intenzionati a far la figura dei babbei che si fanno sfilare sotto il naso un re d’Europa, per quanto pericolante. Il resto segue il canovaccio previsto e prevedibile. Il re in incognito, e gli altri pure che, tra travestimenti e altre mascherate e giochi di finzione, e tra svariate avventure e disavventure e contrattempi, raggiungono la Bulgaria, poi Serbia e Albania.
Ci si diverte, si sorride, come no. Solo che è tutto appiattito sui più sdati cliché. In Bulgaria ecco il solito coro delle voci bulgare con il loro strambo repertorio folk, in Serbia ci si ubriaca fino allo stordimento, sempre però con la paura che qualcuno imbracci il kalashnikov perché si sa che da quella parti son anime calienti per quanto generosissime (vedi anche il film di Kusturica, sempre a Venezia 2016). E avanti così. Mentre il sovrano scopre, tra lo stupore soprattutto del maestro di protocollo, che il mondo là fuori può essere un gran godimento. Viva la normalità.
Il gioco è condotto dall coppia registica Brosens & Wodwoorth con levità, estremo garbo, e anche con una bella fluidità narrativa. Che chi mai l’avrebbe detto dopo le livide atmosfere gotico-medievaleggianti-post apocalittiche di La quinta stagione, con quella landa desolata in preda a una nuova peste con devastanti conseguenze su umani, vegetali e animali? Anche loro due, come il re dei belgi del film, si concedono le loro vacanze romane, anzi balcaniche, lasciandosi andare al piacere di girare qualcosa di più facile e accessibile. Non diversamente da Lav Diaz, vincitore del Leone d’oro, che con The Woman Who Left ha realizzato il suo lavoro meno ostico e, ebbene sì, più popolare (alla faccia della feccia che dopo il Leone ha continuato su carta stampata e web a ironizzarci sopra e a sparlarne in modo miserevole senza naturalmente neanche averlo visto). Visti gli applausi convinti del pubblico a Venezia, non degli accreditati, ma di coloro che il biglietto lo comprano e lo pagano tutto, è possibile che Il re dei Belgi diventi per il duo registico il primo successo, e il primo film con una circolazione meno circoscritta. E però non è il caso di urlare al piccolo capolavoro, al ‘finalmente un film che non annoia’, come han fatto parecchi al Lido. Perché, pur nella grazia infinita con cui è condotta l’operazione, pur con l’eleganza figurativa in cui l’avventuretta del sovrano e del suo entourage è messa in scena, Un re allo sbando (in origine Il re dei belgi) non si toglie di dosso quel senso di cosa minore, di operina fragile e graziosa. E davvero con troppi stereotipi dentro perché la si possa considerare qualcosa di notevole. Che poi, a dirla tutta, la premessa è davvero balorda. Ma come si fa seriamente oggi a costruire un racconto con un re in visita in una Turchia in procinto di entrare nell’Ue? Ma avete in mente la Turchia di Erdogan, e di cosa sta succedendo da quelle parti dopo il tentato golpe e relativa reazione del presidente? Ma vi pare un paese che l’Unione potrebbe accettare, sempre che la Turchia abbia ancora voglia di entrarci? La premessa su cui si fonda Il re dei Belgi non sta in piedi, suona assurda e zavorra fin da subito il film. A meno che questa Turchia così vicina all’Europa sia un’altra delle invenzioni surrealiste di Brosens & Wodwoorth. (E non si dica che un paio d’anni fa, quando il film è stato messo presumibilmente in cantiere, non si poteva ipotizzare la deriva turca attuale: il distacco impresso da Erdogan rispetto alla Ue e il suo progetto neo-ottomano erano già evidentissimi).

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