
Manchester by the Sea

Moonlight

La battaglia di Hacksaw Ridge
Stanotte (domenica 26) è notte da Oscar (in diretta su Sky Cinema Oscar HD e su Tv8 a partire dalle 22.50; i milanesi possono convergere all’Odeon per la Oscar Marathon organizzata da Vanity Fair e già partita sabato 25 con in programma tutti i film finalisti nella categoria Best Picture, in VO con sottotitoli. Verso le 22 di domenica 26, ultima proiezione con La La Land, il gran favorito, e poi collegamento con Sky per red carpet live e cerimonia premi. Si finirà alle 7 di mattina. Rinforzi di panini, brioche e altri generi di conforto).
Sono nove i nominati nella categoria migliore film dell’anno, la più importante (il cui Oscar va, è il caso di ricordarlo, non al regista ma ai produttori). Tutti i pronostici danno per vincente, ça va sans dire, La La Land, che in tutto ha raccolto la bellezza di 14 candidature, record di Titanic e Eva contro Eva eguagliato. Il film di Chazelle si è trasformato in un caso, suscitando dibattiti infiniti, anzi una vera kulturkrieg tra entusiasti e detrattori (io mi sono schierato deciso, fin dalla prima mondiale a Venezia, sul fronte del ‘no, grazie’). Se vi aggrada, ecco la mia personale classifica dei (magnifici? mica tutti) nove. Compreso quell’Hell or High Water presentato lo scorso Cannes a Un Certain Regard e mai uscito nelle sale italiane (visibile però su Netflix). Che dire? Che mi son piaciuti davvero solo i primi quattro della lista, ed è poco. Mi fa rabbia che non ci siano i due migliori degli ultimi mesi, Silence di Martin Scorsese e Jackie di Pablo Larrain, ma è inutile piangere sull’iniquità degli Oscar, omissioni, oltraggi, errori, sviste, sottovalutazioni e ipervalutazioni fan parte della sua storia e, ebbene, sì, del suo fascino. Forte presenza dei film black (Moonlinght, Il diritto di contare, Barriere), cui la Hollywood liberal votante di sicuro concederà parecchio dopo le polemiche dell’anno scorso sull’assenza di nomination afroamericane.
1) Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan. Voto 8+
Storie di gente comune che ha attraversato fatti orribili, e adesso cerca di sopravvivere come può. È devastato il protagonista, come devitalizzato, imploso, anestetizzato. Distrutto dalla colpa. La prima parte, quella che tra saliscendi temporali e spaziali ci porta alla rivelazione della tragedia intorno a cui tutto e tutti ruotano, e da cui tutto discende, è grande cinema. Mai un calo di tensione. Sceneggiatura di ferro; interpretazione commovente, straziante, di Casey Affleck (please, datelo a lui l’Oscar, mica a Ryan Gosling) e Michelle Williams; una regia che riproduce mimeticamente il reale quasi incorporandolo. Lonergan, autore di un film di culto in America come Margaret, non sbaglia niente, va a caccia di dettagli che sappiano riprodurre sullo schermo le infinite sfumature del vero (quell’inquadratura fissa sugli occhi di Casey Affleck ubriaco e intrappolato nei suoi ricordi prima dell’esplosione di rabbia; quei personaggi collaterali che trasudano credibilità, gli infermieri dell’ospedale per esempio), si concede di fratturare la linearità narrativa, ma senza vezzi autorialistici. Tutto è nitido, ossessivamente preciso, in un lavoro di scavo neo-neorealistico che in certi momenti richiama i Dardenne e il grande cinema rumeno, pur non perdendo mai l’impronta antropologica americana. La seconda parte è troppo lunga, non sempre il registro comedy, soprattutto quando è di scena il nipote (un personaggio peraltro meraviglioso), si amalgama con quello drammatico. Certo, con un quarto d’ora, anche mezz’ora di meno sarebbe stato un capolavoro, ma va bene anche così.
2) Moonlight di Barry Jenkins. Voto 8
Vita in tre atti – infanzia, adolescenza, prima età adulta – di Chiron, nato e cresciuto nel ghetto nero di Miami con madre tossica (da crack) e padre che non c’è. Bullizzato, bersaglio di derisione e ostracismo e violenze da parte dei compagni per via della sua sospetta omosessualità, o meglio dei suoi modi morbidi non allineati agli standard machisti. Sarà un lungo e tortuoso viaggio per arrivare, da adulto, a fare i conti con il suo desiderio per gli uomini, e per l’amico, il solo, che gli fu vicino da ragazzo. Troppo didascalico? Sì, un vero trionfo del politicamente corretto. Con un protagonista nero e (forse) gay: una doppia diversità che rischia di fare di questo Moonlight un film-manifesto gonfio di istanze socio-politico-esistenziali. Ma a fare la differenza, e a elevare questo film oltre l’ovvio e la predica-che-scuote-le-coscienze, è la regia di Barry Jenkins, la mise en scène. Moonlight è diverso da ogni altro precedente gay movie, e da ogni altro film sul black people e le sue sofferenze, per i modi, lo stile. La direzione di Jenkins inventa contemplazioni e silenzi, movimenti di macchina avvolgenti e inauditi, inquadrature fisse e ipnotiche rarefazioni e improvvise convulsioni, e cambi di ritmo e di registro, e sinuosità da cinema che tutto ha visto e tutto sa reinventare e riapplicare. Ci sono scene, come dice il mio amico M., che sembrano Wong Kar-wai, come quella lunghissima al ristorante – una meraviglia – in cui Chiron ritrova l’amico perduto. Se non è grande cinema questo (e, ebbene sì, a LesInrocks Jenkins ha detto di aver amato moltissimo il cinema asiatico, e in particolare proprio Wong Kar-wai). Non lasciatevi condizionare dalle recensioni italiche malmostose che ne hanno stigmatizzato la prevedibilità e l’esemplarità da parabola edificante, e andate a vederlo (se già non l’avete visto).
3) La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson. Voto 7 e mezzo
Che ritorno, questo di Mel Gibson alla regia. Con la vera storia del primo obiettore (religioso) di coscienza – che fu mandato in guerra, la WWII, come infermiere e si ritrovò nel mezzo della cruenta battaglia di Hacksaw Ridge -, l’attore-regista allestisce ancora una volta, forse anche meglio di ogni altra sua volta, un teatro grandioso della carne e del sangue, delle lacerazioni e delle ferite, del rito e del sacrificio. La lunghissima sequenza della battaglia – il cuore del film, dove si depositano il suo senso profondo, la sua necessità -, con quei corpi martoriati e martirizzati, è una cerimonia sacra impossibile da dimenticare. E che richiede, esige, la nostra partecipazione.
4) Arrival di Denis Villeneuve. Voto 7+
Una delle due grandi performance di quest’anno di Amy Adams: l’altra naturalmente è quella di Nocturnal Animals. Eppure non le hanno dato la nomination come migliore attrice. Vergogna. In Arrival è una glottologa che cerca di decodificare il linguaggo di alieni sbarcati non si sa perché sulla Terra. Film che si finge di fantascienza, ma che è invece un’odissea nello spazio mentale della protagonista (e anche di noi spettatori). Denis Villeneuve riesce nell’impossibile impresa di connettere in una sola narrazione l’infinitamente grande, il cosmico, e l’infinitamente piccolo che si annida nella psiche.
5) Barriere (Fences) di Denzel Washington. Voto 6 e mezzo
Teatro che cerca di trasmutarsi in cinema, ma non sempre ci riesce. Alla base di questo Fences, diretto e interpretato da un mattatoriale, strabordante Denzel Washington, c’è un play del 1985 su un’ingombrante figura di uomo, padre, padre-padrone, patriarca afroamericano nell’America dei primissimi anni Cinquanta. Troy era un grande del baseball, il più bravo di tutti, ma era nero, non poteva fare carriera, non gliel’hanno fatta fare, e adesso è netturbino. Ha due figli, uno avuto da una storia precoce, l’altro dall’attuale moglie Rose. Che è la donna che gli ha puntellato la vita e l’ha salvato dai suoi demoni. Ma Troy rischierà di rovinare tutto, e di rovinarsi. Turgidissimo e molto parlato melodramma ambientato tra cortile popolare e modesti interni con al centro una titanica figura di maschio dominatore, con cui i figli cercano invano di confrontarsi. Un Crono che divora i suoi rampolli. Con scontri edipici tra übermaschio alfa e maschi giovani che vorrebbero esserlo, come in certi torridi drammi sudisti di Tennessee Wlliams. Un personaggio che sembrava essere lì in attesa di Denzel Washington per trovare il proprio interprete ideale, perfetto, definitivo. Dialoghi lussureggianti e barocchi come ormai non si sentono più. Viola Davis in modalità guardatemi-sono-da-Oscar, e difatti puntuale è arrivata la nomination quale Best Supporting Actress. Vincerà.
6) Il diritto di contare (Hidden Figures) di Theodore Melfi. Voto 6+
Anche qui, un storia politicamente, asfissiantemente corretta. Che va a ripescare e riproporre le vite di tre donne nere che, in ruoli diversi ma ugualmente fondamentali, contribuirono tra anni Cinquanta e Sessanta ai programmi di esplorazione spaziale della Nasa. E che furono determinanti nel progetto Mercury e nel lancio di John Glenn, il primo americano lassù nel cosmo. Una matematica, una donna-ingegnere, una specialista in computer. Siamo a Langley, sede Nasa, dunque Alabama, dunque uno stato allora segregazionista, bianchi di qua neri di là: nei ristoranti, sugli autobus, a scuola, nei posti di lavoro. Alla Nasa il gruppo di calcolo costituito da donne afroamericane (i computer ancora non erano apparsi all’orizzonte e i conti, anche i più complessi, si facevano incredibilmente a mano: è una delle cose più affascinanti del film) è forzatamente separato, neanche i cessi sono in comune con le donne bianche. Naturalmente sarà lotta, e marcia trionfale benché irta di ostacoli verso la parità e l’integrazione: nel lavoro alla Nasa e oltre. Non male l’emancipazionismo black che si intreccia con l’epopea della conquista spaziale. Ammetto che ci sono andato pieno di pregiudizi, non avendo nessuna voglia del solito film virtuoso e politicamente comme il faut. Ma Il diritto di contare è talmente ben costruito, diabolicamente ben costruito, da farsi guardare con piacere. Così si fa il cinema popolare benintenzionato. Imparare. E vedere come perfino la pipì in questo film diventa fatto, e gesto, politicamente rilevante. Octavia Spencer ormai icona queer.
7) La La Land di Damien Chazelle. Voto 5
Non ho più la forza di aggiungere altro dopo le mie due recensioni (la prima scritta a Venezia, la seconda all’uscita del film), se non ribadire che no, non mi è piaciuto, e non capisco come un film tanto piccolo sia potuto diventare un tale fenomeno: quasi 400 milioni di dollari incassati nel mondo so far, 7 Golden Globe vinti, 14 candidature all’Oscar.
8) Hell or High Water di David Mackenzie. Voto 5
Devo dire che quando lo vidi lo scorso Cannes a Un Certain Regard (dove venne presentato con il titolo con cui sarebbe poi uscito in Francia: Comancheria), mai avrei immaginato che sarebbe finito tra i nominati all’Oscar come migliore film. Mi sembrò una cosa qualunque, dignitosa, certo, ma ricalcata su un’infinità di precedenti, soprattutto Bonnie & Clyde di Arthur Penn e Gang di Robert Altman. Con la sua storia, tutta un cliché e déjà vu, di due fratelli (Chris Pine, bravo bisogna dire, e Ben Foster) che laggiù nel Sud-Ovest svaligiano banche per poter raccattare i soldi necessari a bloccare il pignoramento della fattoria ereditata da mamma. Sulle loro tracce uno sceriffo che molto sa e molto ha capito, un al solito formidabile Jeff Bridges (candidato come migliore non protagonista, anche se io spero vinca il Michael Shannon di Nocturnal Animals, unica nomination raccolta dal film di Tom Ford). Sì, tutto bene, tutto a posto, ma era il caso di gridare al quasi-capolavoro come han fatto certi critici americani e qualche italiano dopo averlo avvistato su Netflix? A Cannes non eravamo una folla a vederlo, e di entusiasmi non ne ricordo.
9) Lion – La strada verso casa di di Garth Davis. Voto 5
La solita produzione mirata agli Oscar di Harvey Weinstein. Che anche stavolta ha raggiunto l’obiettivo di entrare in finale. Ma era proprio il caso di nominare Lion lasciando fuori Scorsese e Larrain? E anche il Clint Eastwood di Sully? Sì, la prima parte di questo family drama con avventure esotiche è meno peggio del previsto, con il suo protagonista bambino perso in un’India smisurata e caotica. Ma la seconda, con l’adottato, gli adottanti e il bisogno dell’adottato di ritrovare la vera madre perduta, è puro melodramma apparecchiato per le signore della domenica pomeriggio al cinema. E per quelle che votano all’Oscar.
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