Moonlight, un film di Barry Jenkins. Con Alex Hibbert (Chiron da piccolo), Ashton Sanders (Chiron adolescente), Trevante Rhodes (Chiron adulto), Mahershala Ali, Naomie Harris, Janelle Monáe. Vincitore di tre Oscar: migliore film, miglior attore non protagonista (Mahershala Ali), migliore sceneggiatura non originale.
Vita di Chiron in tre atti: infanzia, adolescenza, prima età adulta. Dai ghetti di Miami a quelli di Atlanta. Moonlight poteva essere solo un esemplare, troppo esemplare apologo su quanto sia complicato per un ragazzo essere nero, povero e (probabilmente) gay, diventa invece nella mani di Barry Jenkins una storia aperta, mai definitiva, sul desiderio, sul riscatto, sulla ricerca di sé. Una tortuosa e affascinante Bildung. Con libertà e azzardi di regia che difficilmente si vedono in un film americano. Voto 8
Sarebbe il caso di andarlo a vedere (se già non lo si è visto) perché vale, e non solo perché il fatale scambio di buste nella nottataccia degli Oscar ne ha fatto un titolo da prima pagina. Sembrava La La Land e invece era Moonlight. E per fortuna, perché questo film di Barry Jenkins, benché male accolto da buona parte della critica italiana che ha storto la bocca e arricciato il naso e alzato il sopracciglio per via dell’elevato tasso di edificante antirazzismo esibito dal film e per i suoi eccessi didascalici (il protagonista è nero, forse gay e sicuramente poverissimo, un concentrato di diversità sociali come poche volte) è meglio – soprattutto ripensandolo a distanza di qualche giorno dalla visione – del suo concorrente danzante e cantante. Io, che ho in uggia ogni political-correttismo e le retoriche pro-svantaggiati, ci sono andato assai prevenuto, e invece mi sono ritrovato un film che riscattava il suo schematismo, il suo prevedibile racconto di diversità e sofferenza, in contemplazione e visioni, in una purezza cinematografica come poche volte in un film americano, benché indipendente e dunque di suo più votato agli ardimenti formali e stilistici. Barry Jenkins – le informazioni le ho tratte da un’intervista che ha rilasciato a Les Inrockuptibles – arriva tardi al cinema, e al cinema autoriale ancora di più, e nella sua ansia bulimica di sapere, di recuperare, di accelerare i tempi dell’apprendimento si immerge nel cinema lontano-asiatico, se ne innamora, in special modo resta folgorato da Wong Kar-wai. Quel cinema, e anche molte cose nouvellevaguistiche europee, lo si ritrova sedimentato in Moonlight, producendo un oggetto filmico poco o niente apparentabile ai molti film americani sui temi razziali e lgbt. Ogni dimostratività sembra venire annullata dalla macchina da presa di Jenkins, così intenta a lavorare sui corpi, le facce, le parole (scarse) e il silenzi (lunghi) da vanificare ogni tono predicatorio. Le certezze del messaggio politico e della denuncia vengono come corrose da una regia che la sua verità la va a cercare altrove, direttamente nei suoi personaggi e nella loro carne, in quel che fanno, in quel che subiscono, nel come desiderano, sono amati o male amati, o respinti. Non è banale psicologismo, è se mai antropologia, viaggio nel profondo umano, indagine di comportamenti e di azioni e reazioni, è cortocircuitare il singolo con quello (chiamiamolo pure società) che gli sta intorno. Un risultato che Jenkins raggiunge, prima che con un uso incredibilmente consapevole della macchina da presa, operando al livello della scrittura, della sceneggiatura, così scabra e rarefatta da ricordarci il cinema dei lunghi silenzi di un Bergman o di un Dreyer. Ed è straniante ritrovare tutto questo in un film indie americano, genere votato ai tic e manierismi e immediatismi da Sundance che sappiamo.
L’inizio, quello del bambino Chiron, timido e gentile in una banda di coetanei che non lo sono altrettanto, e che non lo sono con lui, sembra ottemperare al canone Sundance in toto, con quella cam mobile e nevrastenica che segue il suo protagonista e i suoi amici-nemici, e ti dici, ecco, siamo nel solito cinema ggiovane che ci fa venire i balordoni, e invece no, scopri poi che è solo uno dei molti modi di fare cinema che Barry Jenkins si concede, adattandosi di volta in volta ai passaggi della narrazione.
Si è già molto scritto della struttura di Moonlight, diviso in tre capitoli autonomi e conchiusi, per raccontare tre fasi nella vita del suo protagonista Chiron, nato e cresciuto nella parte nera di Miami: infanzia, adolescenza, prima età adulta. In ognuno si procede per ellissi, mettendo in fila i momenti biografici significativi, gli highlights potremmo dire, e tagliando fuori raccordi, snodi, connessioni e una quantità di spieghe. Tutto è essenzializzato, come in una lezione accademica su un caso esemplare di cui si mostrino solo le tappe salienti. Ma questo ritirarsi del racconto apre ampie zone alla pura messinscena di Jenkins, il che fa di Moonlight uno dei film a più alta densità registica degli ultimi tempi.
Chiron bambino vive con una madre insieme protettiva e assente, soggetta com’è alla sua dipendenza da crack, e lui, Chiron, si ritrova a doversi arrangiare da solo, in quell’ambiente di coetanei violenti e di adulti che lo sono anche di più, padre che non c’è, degrado diffuso indotto da quella roba lercia che sono i cristalli di crack. A occuparsi di lui arriverà sorprendentemente Juan (Mahershala Ali, premio Oscar), il boss dello spaccio della zona, un nero cubano che nel quartiere ha costruito il suo habitat e il suo regno. Con lui, e la sua ragazza Teresa, Chiron troverà una specie di famiglia numero due, e, quando saprà che Juan è il pusher di sua madre, sarà la scoperta di come male e bene possano intrecciarsi nella stessa persona. Juan gli insegna come sopravvivere al ghetto, ed è agli occhi di Chiron un modello maschile di riferimento, possente e compassionevole insieme. Nella seconda parte, nel capitolo adolescenza vediamo uno Chiron all’incirca sedicenne costretto a subire la brutalità del piccolo boss della scuola, oltraggiato quale faggot per via dei suoi modi troppo morbidi e il suo scansare la violenza. Chiron fatica a classificare se stesso in base al proprio desiderio sessuale, si prende del faggot, frocio, senza sentirsi intimamente gay, o forse senza volerlo riconoscere. Perché Moonlight – altro elemento che lo fa divergere dal diluvio di film a tematica queer in cui un ragazzo o una ragazza ‘prendono coscienza’ del proprio essere omosessuale – è assai più riservato, se vogliamo reticente, su questo punto. Chiron è o non è gay? O meglio: si sente o non si sente gay? O sono gli altri a ritenerlo tale e dunque a indurre in lui un’autopercezione che altrimenti non proverebbe? Questo consente a Jenkins parecchie sfumature e anche felici ambiguità che i film-bandiera a militanza lgbt non si possono permettere. E anche quando Chiron e il suo amico, l’unico amico, Kevin, una sera si baciano, si toccano, si masturbano, la macchina da presa lascia intuire più che mostrare.
Nel terzo atto ci ritroviamo davanti una mutazione fisica e a un salto esistenziale di Chiron che lasciano sbalorditi, e che sono anche uno dei punti di fragilità di Moonlight: difficile credere che il timido ragazzetto, pur dopo la sua ribellione contro il piccolo ras di classe che lo bullizzava e il duro apprendistato in carcere, sia diventata il macho muscoloso e torvo che vediamo. Un giovane uomo modellato secondo i canoni stabiliti dalla subcultura del ghetto: pusher di mestiere, palestrato, addobbato e abbigliato come vuole l’estetica rappettara e da magnaccia, e son catenoni d’oro e altre cosacce bling-bling di massima volgarità, macchina rombante e cafona compresa. Certo, il messaggio arriva forte e chiaro: per sopravvivere in un habitat maschilista e fallocentrico come quello afroamericano un gay non può che mimetizzarsi e adeguarsi al cliché dominante, trasmutandosi, incarnandosi in quel cliché. Ma davvero si stenta a riconoscere una qualsiasi continuità tra l’attore di questo terzo atto e i due che nei precedenti interpretano Chiron. Poi si intuisce che questa incongruenza serve (forse) ad accentuare il cambiamento (scelto o eteroindotto?) di Chiron, il distacco dal suo sé di prima. E a drammatizzare ulteriormente un altro salto che di lì a poco accadrà, il ritorno di Chiron al se stesso infantile e adolescente attraverso l’incontro con il ritrovato Kevin. Dire che questo significa, applicando le esemplari vite dei santi gay che ci vengono così spesso raccontate, ‘la presa di coscienza’ di Chiron, il suo accettare di essere omosessuale, il suo coming out almeno di fronte a se stesso e il ripudio della corazza machista costruita per difendersi, è una forzatura rispetto a quanto il film si limita sobriamente a suggerirci. Non si fanno proclami, non si ricorre a fanfare per celebrare l’omosesualità finalmente accettata di Chiron, più laicamente si mostra un altro passaggio nella sua vita, senza dirci se aprirà a un quarto atto, a un altro capitolo. Pur muovendosi sul terreno scivoloso del racconto dimostrativo, Moonlight se ne discosta per i modi e i toni non perentori, per il suo arrendersi al dato umano preideologico. La verità, se mai, sta nel desiderio di Chiron, nella sua intermittenza. Ed è nel seguire lui, e il suo tortuoso cammino da ragazzino timido e inerme a adulto fortificato fino alla riscoperta del proprio essere fragile, che Barry Jenkins adotta modi registici sempre diversi, e ugualmente stupefacenti per libertà e invenzioni. Dalla camera mobilissima alle inquadrature fisse e ieratiche, agli indugi, ai rallentamenti, alle contemplazioni e rarefazioni alternate a improvvisi scoppi e convulsioni. Con la scena in sottofinale nel ristorante di Kevin ritrovato che è la summa vertiginosa di tutte le esplorazioni registiche di Jenkins, una scena lunghissima, con silenzi e sguardi da Chiron a Kevin, da Kevin a Chiron, e dettagli promossi a elementi centrali dell’inquadratura. Un alternarsi di vuoto-pieno che a me ha ricordato la sequenza iniziale con Woody Strode di C’era una volta il West di Sergio Leone. Cinema del rallentamento, dello spostamento su un altro ritmo, su un altro senso del tempo. Cinema alla Wong Kar-wai, autore-feticcio del regista. Cinema anche del desiderio, che attraverso i corpi, il loro muoversi nello spazio schermico, il loro incontrarsi e lasciarsi, disegna una geografia dell’attrazione e del rifiuto. In ogni suo passaggio Moonlight è saturo di desiderio, il che ne fa uno dei film più coerentemente erotici visti ultimamente, anche, o forse perché, reticente e perfino pudico. Basterebbe questo, e basterebbe la lunga, magistrale sequenza nel ristorante di Kevin, a fare di Moonlight un film importante, ad azzerare ogni discussione sul suo Oscar, e a promuovere Barry Jenkins tra i registi su cui contare.
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