Recensione: VI PRESENTO TONI ERDMANN, un film di Maren Ade. Greve commedia teutonica scambiata chissà perché per un grande film

500931Vi presento Toni Erdmann, un film di Maren Ade. Con Sandra Hüller, Peter Simonischek, Michael Wittenborn. Al cinema da giovedì 2 marzo 2017.
0c80e5ecf0cfaa28eba0e065598e952eGià a Cannes questa commedia di famiglia surreal-grottesca, firmata dalla tedesca Maren Ade, fu accolta da applausi frenetici (anche se poi non vinse niente). Da lì ne ha fatta di strada, vincendo una valanga di premi e finendo perfino in testa alla classifica dei migliori film 2016 stilata dalla bibbia di ogni cinefilo, i Cahiers du Cinéma. E sfiorando qualche giorno fa l’Oscar.
Posso dire che a me invece Toni Erdmann è sembrato orrendo? Parte come ritratto realistico di una donna in carriera in una cattvissima multinazionale. Ma quando va a trovarla a Bucarest il padre tardo-frikkettone, ecco che svolta di colpo, e incongruamente, in screwball comedy (qualcuno ha scritto punk-comedy: mah). Dura ahinoi tre ore, e il cambiamento della protagonista da jena-manager a sovvertitrice dell’ordine malcostituito è assolutamente inverosimile. Con le solite scontate frecciate al cattivo capitalismo, alla globalizzazione ecc. Voto 4
548825Ripubblico la recensione che ho scritto il maggio scorso dopo la proiezione-stampa al festival di Cannes. Da allora parecchie cose sono successe intorno a Toni Erdmann (questo il titolo originale, il Vi presento è aggiunta tutta italica), diventato via via uno dei film più premiati del 2016/17 (tra cui uno sfracello di Efa) e amati dai ciritici: come quelli dei Cahiers che lo hanno eletto, per me incredibilmente, miglior film dell’anno. La scorsa settimana i suoi molti sostenitori si aspettavano gli dessero anhe l’Oscar quale migliore film straniero, per fortuna ha provveduto l’iraniano Asghar Farhadi a soffiarglielo con il suo The Salesman. Ma ecco la recensione.

Ci si può sentire soli, molto soli, quando un film come questo, che a te ha fatto semplicemente orrore, alla fine del press screening viene salutato da un’ovazione e urla di entusiasmo soprattutto da parte delle donne. Ci si può sentire soli, molto soli, quando al suddetto film cui tu daresti tutt’al più un 4 ottiene invece la massima valutazione dal panel dei critici internazionali interpellati dal daily magazine Screen. Magari questo tremendo Toni Erdmann ci vince pure la Palma d’oro. Sarebbe premio assai politicamente corretto in quanto dato alla regista donna di un film che parla di un donna che per la carriera ha dovuto incattivirsi e rinunciare al bello della vita. Una calamita per le giurie festivaliere. Datemi pure del misogino, ma vedo che in giuria ci sono quattro signore, di sicuro competentissime ed equanimi. Spero solo non si lascino trascinare dalla cosiddetta solidarietà di genere. Se proprio proprio, date il premio di migliore attrice a Sandra Hüller, ma di più no, vi prego, vi scongiuro. Intendiamoci, non che manchino nella fluviale (quasi tre ore!, ma stiamo pazziando?) opera terza della tedesca Maren Ade momenti  interessanti, soprattutto quando nella prima parte tenta di raccontarci cosa significhi lavorare, oggi, a livelli manageriali in aziende altamente competitive che operano su scala globale. Solo che son sbagliati i toni, i registri, e l’accostamento tra toni diversi produce un effetto stridulo continuo, fastidiosissimo, disturbante, che ti viene voglia di scappare, se non fosse per quello stupido super ego del festivaliero genere soffro-ma-resto-fino-in-fondo. Semplificando, diciamo che Toni Erdmann è una screwball comedy con due caratteri opposti cortocircuitati a produrre inevitabili frizioni e automatici effetti comici. Sul filo del surreale e dell’assurdo. E però, scusate: una screwball comedy di tre ore? Una contraddizione in termini, un qualcosa che non può esistere in natura, ecco. Tornasse Howard Hawks, che si era inventato i dialoghi sovrapposti per accelerare ulteriormente la velocità delle sue commedia pazze (vedi Susanna!), temo che di fronte a questo film imbraccerebbe il kalashnikov. E poi: una screwball tedesca? Ma quando mai s’è vista? Forse prima che Lubitsch e Wilder lasciassero gli stabilimenti dell’Ufa. Il motore narrativo consiste nel mettere forzatamente insieme un padre quasi settantenne ma sempre frikkettone e contestatore dentro, un allegro fallito secondo gli usuali standard sociali, un dadaista naturale che si diverte a sovvertire gli ordini costituiti e tramutarli in disordine, con una figlia che è il suo esatto contrario. Votata al lavoro e alla carriera, ossequiente di ogni regola a partire da quelle aziendali: una macchina per il successo senza più una parvenza umana. Che quando la jena torna a casa in visita breve tra un volo e l’altro dai suoi traffici internescional se ne sta sempre attaccata al telefono. Già consulente aziendale nella rampante Shanghai, adesso sta a Bucarest col compito di razionalizzare i costi di certi pozzi petroliferi rimasti per tecnologia e (dis)organizzazione del lavoro ai tempi di Ceausescu. Succede che papà Winfried in occasione del compleanno della figliola, che di nome fa Ines, pensa (male) di farle un’improvvisata là, nella capitale di Romania, e potete immaginarvi la gioia di lei. Soprattutto di fronte all’orrida grattugia-design che lui le ha portato come regalo (e già questo). Imbarazzatissima, Ines è costretta a trascinare il genitore (capelli lunghi, jeans ecc.) a un party assai formale all’ambasciata americana dove lui dissemina le sue facezie e le sue provocazioni anarcoidi e mattacchionesche. E avanti così. Per un tre quarti d’ora Toni Erdmann, anche per le sequenze quasi in tempo reale, sembra un film-verità, niente male quando ci fa entrare nei meccanismi di produzione del denaro, del potere, dello status sociale delle corporation internazionali. I meeting, i briefing, la battuta brillante che ti può spingere in alto e farti aver un contratto in più, o la parola sbagliata che ti può costare il posto e la carriera. Per non parlare della moglie del boss in visita da accompagnare a far shopping sennò son guai. Con uno stile spoglio, cronachistico, quotidiano mutuato dai Dardenne e da certo cinema rumeno. Ma è un trompe-l’oeil, un inganno ottico. E dura poco questo spaccato antropologico. Perché il film purtroppo poi svolta e si butta rovinosamente in commedia. Il padre burlone finge di partire, ma resta sempre a Bucarest a incombere sulla figlia, a tenderle imboscate, inventandosi finti lavori, finte identità. E trascinando la Ines in una girandola di situazioni assurde e paradossali. Solo allora capiamo che la regista intendeva realizzare una commedia familiare giocando sulla ovvia, troppo ovvia contrapposizione tra figlia schiava del capitalismo e padre pazzerellamente anarchico. Troppo facile, signora Maren Ade. Il peggio è che non si capisce e non si giustifica come mai la figlia, che di quel padre si vergognava, decida di colpo di stare al suo gioco e di assecondarlo. Inverosimile. E vogliamo parlare del naked party in sottofinale che ha tanto fatto ridere la platea giornalistica della salle Debussy? Che quando ste cose le fanno le raunchy comedy americane si arriccia il naso e si danno cattivi voti con la matita rossa, mentre qui si invoca la palma d’oro. Naturalmente si indovina subito come finirà, anche se per averne la certezza si dovrà quasi arrivare all’ora terza di durata, e non si può, ecco. Con una scena che va inscritta nell’archivio delle sporcaccionerie da festival. Ines che non vuol farsi penetrare dal collega-amante chiedendogli di masturbarsi e eiaculare sui dolcetti. Che mangerà subito dopo irrorati di sperma. Se una scena così l’avesse girata un regista maschio, e proiettata a un festival oltretutto, l’avrebbero fatto a pezzi. E invece.

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