Recensione: IL PADRE D’ITALIA, un film di Fabio Mollo. Omogenitorialità e miracoli

Il_Padre_d_Italia_08-1030x557Il_Padre_d_Italia_03-1030x557Il padre d’Italia, un film di Fabio Mollo. Con Luca Marinelli, Isabella Ragonese, Anna Ferruzzo, Mario Sgueglia.
Il_Padre_d_Italia_07-1030x557Ardito, bizzarro ma per niente riuscito lavoro di un regista che pure negli anni scorsi ci aveva dato film molto interessanti come Il Sud è niente e Vincenzo da Crosia. Storia poco plausibile di un trentenne gay con ansie di paternità e una ragazza sbandata e incinta. Si parla di nuove forme di genitorialità tirando in ballo archetipi religiosi, in un miscuglio anche affascinante, che però non quaglia mai (ci voleva almeno un Buñuel per riuscirci). Poi tutto si risolve in uno spottone. Peccato. Notevole però la parte calabrese del ritorno in famiglia. Voto 5
Il_Padre_d_Italia_04-1030x557Fabio Mollo è autore tra i più interessanti della sua generazione (ha 37 anni) e del nostro asfittico nuovo cinema, sicuramente uno dei nomi da tenere d’occhio. Il suo Il Sud è niente (bellissimo titolo, tra l’altro), uscito nel 2013 e snobbato, se non ignorato, dai sopracciò della critica di casa nostra e cosa nostra – ma no, cosa pensate? è solo una battuta cui non ho saputo resistere, come le tentazioni di Oscar Wilde, mica sto dicendo che quella dei critici è una cosca, mica son paranoico-complottista io – era un bel film, qua e là sconnesso, ma con una sua fosca vitalità, insolito, collocato in uno scenario, quello di una Reggio Calabria per niente cartolinesca, allarmante al punto giusto. Vi si parlava di una ragazza ombrosa e di tendenza tomboy con un padre giovane vedovo sull’orlo di una crisi esistenzial-economica e un fratello scomparso divenuto ingombrante fantasma psichico. Molte cose dentro, anche tra loro incongrue e mal mescolate, e però il risultato mordeva, lasciava tracce: Il Sud è niente non era un film qualsiasi. Con, anche, un interesse, un’attenzione a certa religiosità popolare da profondo Sud in bilico tra cristianesimo e lasciti magico-precristiani davvero inusuali per il nostro cinema di oggi. Un intreccio tra ipermodernità dei comportamenti privati e tradizioni culturali che tornava anche nel film successivo di Mollo, un dcumentario tra i più anomali che l’Italia ci abbia dato ultimamente, dato al Torino Film Festival (dove se ricordo bene fu anche premiato) e però mai circolato nelle sale, neanche in quelle dedicae ai propdotti più indipendenti. Vincenzo da Crosia, questo il titolo, andava a ricostruire l’incredibile storia di un giovane uomo calabrese che a 14 anni ebbe la visione di una Madona piangente, ottenne un vasto seguito popolare e continuò, tra molte vicende complicate e contraddittorie, a rivederla per i sucecssivi 25 anni. Mentre, crescendo e facendosi grande, scopriva la sua omosessualità diventando anche un militante lgbt e partecipando ai Gay Pride. Vicenda devo dire che mi lasciò sbalordito per come scardinava ogni cliché, mescolando fede popolare a cultura postmoderna e posttutto dei diritti, la religiosità più legata al magico e le cosiddette istanze e tematiche gay-liberazioniste.
Lunga premessa per dire che dopo due film così mi aspettavo molto da Fabio Mollo, da questo suo terzo lungometraggio Il padre d’Ialia. Invece, delusione grande anzi grandissima. Quel senso di vitale commistione e confusione che distingueva i due precedenti film qui non si ripete, il difficile amalgama si scompone nei suoi elementi eterogenei e l’impressione è quella del caos, dell’incongruità. L’incredibile, e insieme affascinante, alleanza tra gaytudine e forme di religiosità popolare di Vincenzo da Crosia si ripete in qualche modo anche qui, ma piattamente, con addosso un pesante intento didascalico e dimostrativo che impiomba la narrazione. Il padre d’Italia (alla fine scopriremo il perché del titolo. e il suo farsi metafora) ci mette di fronte a un trentenne gay tormentato con ansie di paternità e una ragazza sbandata incinta da non si caisce bene chi con una Madonna (intesa come madre di Cristo, non come popstar) raffigurata sul giubbotto. In fondo, si dice da quache parte del film, anche San Giusepoe era uno strano padre, nel senso che non era il padre biologico di Gesù, e mentre il padre vero chissà, con quella immacolata concezione. Insomma, ci siamo capiti: in Il padre d’Italia si accenna a San Giuseppe e alla sua sacra quanto anomala famiglia, per strizzare l’occhio e alludere chiarissimamente alle nuove forme di famiglia oggi al centro di dibattiti e controversie e di tutte le agende politiche, a una genitorialità sganciata dal dato biologico, omogenitorialità ma non solo quella. Confesso, mi fa venire i sudori freddi questo tirare in ballo San Giuseppe e icone mariane cortocircuitando arditamente – mentre ci vorrebbe un po’ di cautela – i nuovo diritti dell’omogenitorialità e gli archetipi religiosi che han fatto piaccia o meno il nostro mondo, la cultura d’Occidente.
E poi, che dialoghi Sant’Iddio in questo film. Con i dolori del giovane uomo gay di nome Paolo impersonato da Luca Marinelli (forse oggi il nostro attore più telentuoso insieme a Elio Germano, ma che qui soccombe all’impossibile compito) son spesso parlati con parole che un tempo si dicevano da fotormanzo e oggi da soap opera. E tutto quel soffrire pee via del fidanzato Mario se n’è andato perché voleva diventare genitore e lui, Paolo, invece macché, no, per niente convinto di metter su famiglia. Ecco, questa parte, che è la prima parte soprattutto, si fatica a guardarla e ascoltarla, così virtuosamente portatrice di muove istanze e nuovi diritti. Anche l’incontro di Paolo con Mia (in una dark room di un club gay! ma vi par possibile?) non alza il film. Lei si rivela non solo incinta – mentendo serialmente su chi possa essere il padre – ma una di quelle sbandate che vagano da un posto all’aktro, da una casa all’altra, probabilmente, anche se non si dice, da una sostanza alterante all’altra. Fatto sta che si salda, senza troppa logica, la strana coppia, la santa alleanza Paolo & Mia, con perfino conoscenza carnale e intima se ricordo bene in un motel, benché lui pensi sempre a Mario, ma l’eros sa essere plastico, giusto?, e non unilaterale, e signora mia mica lo si può ingabbiare il desiderio. Insomma, è un pasticcio. I due partono da Torino e poi discendono l’Italia, in un viaggio verso Sud che ricalca il Grand Tour, prima Roma, poi Napoli, poi par di capire la Calabria sullo Stretto, a casa di lei. Ed è, quest’ultima, la parte miglioreì del film, dove Mollo ritriva quel senso urgente di crisi, di desolazione, di abbandono, di disillusione che era del suo Il sud è niente. Bella e dolente è la figura della madre di Mia, ma tutti i parenti, tolleranti e rassegnati, sono persone che ti si fissano nella memoria. Non sto a dirvi ovviamente come il film procede e si conclude, di un finale scontatissimo e super ideologico. Dunque: se San Giuseppe è diventato papà volete che non ci riesca Paolo e Mario? E visto che Mia sta per Maria – quella Madonna sulla schiena è un indizio incontrovertibile – traete voi le conclusioni. Ora, per condurre inpirto una simile operazione di ardite contaminazioni e rimandi tra sacro e profano ci voleva minimo Buñuel redivivo, che qui non c’è. E lo spot pro-genitorialità di nuovo tipo è alla fine così smaccato da ridurre la storia a teorema ideologico, e Paolo a un manichino cui appendere messaggi politicamente, virtuosamente corretti, spolpandolo di ogni sua consistenza di personaggio autentico. Isabella Ragonese, una delle migliori ragazze in circolazione nel nistro cinema, fa quel che può, fa molto, per renderci sopportabile il suo personaggio di sballatona, ma non può fare miracoli, nonostante quell’immagine mariana che si porta in giro per tutto il film sul giubbotto.

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