La bella e la bestia, un film di Bill Condon. Con Emma Watson, Luke Evans, Dan Stevens, Kevin Kline, Josh Gad.
Come previsto, è già record di incassi. La versione un po’ live action e un po’animata del cartone anni Novanta, è una macchina da guerra di micidiale efficienza. Inbizio un po’ lento, ma quando si approda al castello e al cospetto della Bestia il film decolla. Meravigliosa la danza degli oggetti. L’insstenibile correttezza politca porta a fare di Belle un’eroina protofemminista, e non ce n’era bisogno, visto che la favola ha sempre funzionato benissimo anche senza. Il personaggio gay? Molto rumore per meno di nulla. Voto tra il 6 e il 7
350 milioni di dollari gli incassi wolrlwide nel primo weekend di programmazione, 170 solo in America. Quanto all’Italia, 7 milioni di euro: il calcolo in dollari all’attuale cambio (al momento in cui scrivo: Eur/Usd 1.080225) per favore fatelo voi. Ecco, di fronte a simili numeri cosa volete che abbia senso scrivere recensioni, buttare lì commenti, esprimere opinioni su carta o web? La superfluità della cosiddetta critica cinematografica, la sua ininfluenza, la perdita dei ogni sua capacità di orientare il pubblico le si misura in frangenti come questi. Perché la macchina produttiva dei blockbuster va avanti per conto proprio, secondo una sua meccanica interna impermeabile a ogni critica, che sia di segno negativo o positivo. I recensori son solo poveri esseri armati di cerbottana che pateticamente lanciano freccette contro poderosi cyborg messi a punto nei pensatoi del marketing, questa è l’orribile verità. Per quanto mi riguarda, io scrivo quel che ne penso, e se poi qualcuno legge e ci medita sopra un qualche secondo va bene, non chiedo di più (lascio hybris e delirio di onnipotenza e spocchia a certi critici ancora convinti di poter influenzare il pubblico). Naturalmente dietro La bella e la bestia c’è la maison Disney, dominatrice del mercato cinematografico mondiale. Con cifre impressionanti: nel 2016 al global box office i suoi film hanno incamerato 7000 milioni di dollari, se preferite 7 bilioni, pari al 16,2% del totale degli incassi. Confermando quanto è evidente da anni. Che il pubblico si addensa intorno a poche produzioni colossali, disertando quasi tutto il resto. Il buon cinema mainstream che non è supereoristico, non è sci-fi, non è animazione, non è fantasy, non è effetti e effettacci speciali, insomma il cinema live action che conta su plot e attori, è in ritirata, se non in estinzione. Negli ultimi mesi sono andati abbastanza bene (parlo degli Usa) La La Land e Il diritto di contare, per il resto poco o niente. E non parliamo dei film più propriamente autoriali: quelli, soprattutto in America, in sala ormai non li va a vedere praticamente più nessuno (ma lo immaginate un medio trentenne che spende qualche dollaro, o euro, per Elle di Paul Verhoeven o i Dardenne?). Resta da vedere se le piattaforme on demand tipo Netflix riusciranno a resuscitarlo.Ecco, La bella e la bestia non è solo un film, è una macchina da guerra, un’esibizione muscolare di casa Disney, una dimostrazione di potenza. Si resta abbagliati dal suo titanismo produttivo. E travolti da certe sequenze di mirabolante perfezione tecnica, come la danza degli oggetti animati al castello – l’apice del film -, che è anche un numero da musical all’altezza dei classici hollywoodiani. Certo, la prima parte al villaggio è lenta a carburare, butta lì un po’ troppe premesse e inciampi, ma poi, una volta approdati al castello e al cospetto della Bestia, si va via spediti. E ci si lascia andare alla disneytudine come a un ipnotico, e sembra perfino di viaggiare all’indietro, come in una macchina del tempo, verso certi musical anni Sessanta, per via del doppiaggio straripante che non risparmia nemmeno le moltissimi parti cantate, con testi riscritti nella nostra lingua e voci che si vogliono cloni delle originali (e però poi che disastri con il lipsync). La mente torna ai doppiaggi di My Fair Lady di George Cukor e di Tutti insieme appassionatamente di Robert Wise, dove la cattiva pratica del dubbing poteva portare però paradossalemnte a esiti stupefacenti e perfino superiori alla versione inglese. Qualcuno ricorderà, per dire, il sublime nonsense della tiritera ‘La rana in Spagna/gracida in campagna!’ (My Fair Lady) o l’altrettanto sublime ‘Là, se proprio non è qua!’ (Tutto insieme appassionatamente, nel pezzo in cui Julie Andrews insegna le note ai bambini scatenati). Ma in questo La bella e la bestia non ho sentito altrettanti capolavori involontari, il doppiaggio è corretto e funzionale, niente di più. Con il grave effetto collaterale che, piallando via le voci prestate agli oggetti parlanti da attoroni in partecipazione speciale e si immagina ben pagata (Ewan McGregor, Emma Thompson, Ian McKellen, Stanley Tucci…), non si capisce poi come nel finale sbuchino loro, i suddetti attori, in carne e ossa.
Per il resto, chapeau alla grande fabbrica dei sogni e delle ipnosi. Sì, infastidisce quell’aria di correttismo ideologico che si avverte soprattutto sulla prima parte, cone Belle ragazza non conformista, emancipata e protofemminista, giacché non solo sa leggere, ma vuole insegnarlo pure a una bambina, scandalizzando i villici per i quali una donna deve stare al posto suo, cioè in basso nella scala sociale, e nell’ignoranza. E poi, ecco che rifiuta il miglior partito del villaggio (Luke Evans, stronzo ma ovviamente strafico), reclamando la sua libertà di scelta. Non bastasse, simpatizza pure per una signora assai addentro nelle arti della guarigione con erbe e altre cose e dunque sospetta di stregoneria. Insomma, casa Disney si adegua ai tempi (decenni di corsi ai college sulla differenza femminile e la cultura altra delle donne hanno sortito il loro effetto), trasformando Belle in un’eroina dei diritti, e non era proprio il caso, e non se ne sentiva il bisogno, perché la favola, da quando c’è, non ha mai dovuto ricorrere a simili stampelle funzionando sempre benissimo da sola: grazie al suo nucleo forte, ovvero l’attrazione sconveniente tra Bella e il principe trasformato da un sortilegio in Bestia. Marco Giusti nella sua recensione su Dagospia rimpiange che non ci sia qualche frisson erotico in più, e ha ragione, la favola che vediamo è alquanto depotenziata e dolcificata, e depurata dei suoi lati tenebrosi (com’era invece La bella e la bestia di Jean Cocteau, la migliore di sempre), ma la Disney è la Disney, il cinema del desiderio non è mai stato il suo. Quanto alle polemichette per il personaggio gay, il primo nella storia della casa, molto rumore per nulla, e anche meno. Il valletto del perfido Gaston, chiamato Le Tont, è un omosessuale abbastanza d’antan, di quelli effeminati assai che venivano detti checche e adesso non si può più dire, chiaramente perso per il suo padrone Luke Evans, e molto versato nei canti e nei balli come vuole il cliché veterogay (difatti i due danno vita al miglior numero cantato-ballato live action del film, essendo il migliore in assoluto quello degli oggetti al castello, ça va sans dire). Non si capisce dove stia lo scandalo, giacché nessuna mano malandrina si muove impropriamente, nessun bacio, neanche il più casto, viene scambiato, e solo nel ballo finale vediamo per un frazione di secondo al limite del frame subliminale il valletto Le Tont danzare con un tizio baffuto. Tutto qui. Un ricalco dello stereotipo del gay buffo con le sue mosse e mossette che negli sppettacoli per famiglie c’è sempre stato, anche se mai dichiarato, piacendo sempre moltissimo.
La sinossi? Pr quei pochissimi rimasti sul globo terrestre che non hanno mai visto almeno una versione della favola, eccola in poche parole. Belle, volitiva ragazza, vien presa in ostaggio nel suo fosco castello da un principe trasformato in bestia da un malefizio. Malefizio da cui potrà liberarsi, tornando alle sue precedenti fattezze, solo quando verrà sinceramente amato da qualcuno nonostante le apparenze animalesche. Con lui aspettano ansiosamente la liberazione cortigiani e altre presenze del castello trasformati in oggetti, per quanto animati e parlanti. Quel che poi succederà, è facilmente intuibile. Lo spettacolo che la Disney ne trae (e che trae, musiche incluse, dal proprio precdente cartone dei primi anni Novanta) è grandioso, per le varie truccherie digitali, per le scenografie, soprattutto per i numeri da musical. Manca invece ogni inquietante profondità. Ogni indagine su quello strano desiderio tra la ragazza prigioniera e il suo signore e padrone è bandito. Non l’ammette la tradizione di casa Disney, e ancora meno il modello della donna senza macchia e assertiva oggi dominante. Emma Watson funziona benissimo, nella sua bellezza da statuina, e ha un piglio combattivo in linea con la rilettura femminista del personaggio. Delude invece Dan Stevens, uno sciapo, biondastro principuzzo, che naturalmente era molto meglio, più interessante, in versione bestia con corna e peli. Tra gli oggetti vince il candeliere con braccia fiammanti.
Post Scriptum: capisco che per un film che punta a ogni possibile rcord d’incasso sia inconcepibile la rinuncia al doppiaggio, e però si poteva distribuire, tra le centinaia di copie previste, almeno una decina in originale con sottotitoli. Così, per educare le masse (scusate la fraseologia vetero-maoista), per tentare un esperimento a costi tuttosommato contenuti. Che poi quello dei film non doppiati è un piccolo mercato che si sta aprendo finalmente anche in Italia, almeno nelle nicchie ecologiche dedicate al cinema autoriale. Il tedesco Victoria – operazione molto interessante sul genere ‘tutto in una notte ‘ – sarà distribuito in versione originale sottotitolata da Movies Inspired, lo stesso l’australiano Tanna – vincitore della Settimana della critica a Venezia 2015 e recentemente nominato all’Oscar categoria migliore film straniero -, distribuito dalla recentemente nata Tycoon (della quale è ancora nei cinema Mister Universo: non perdetelo).
CERCA UN FILM
ISCRIVITI AI POST VIA MAIL
-
-
ARTICOLI RECENTI
- Berlinale 2023. Recensione: LE GRAND CHARIOT di Philippe Garrel. Giusto il premio per la migliore regia
- Berlinale 2023: SUR l’ADAMANT di Nicolas Philibert. Recensione del flm vincitore
- Berlinale 2023, vincitori e vinti: l’Orso d’oro a Sur l’Adamant e gli altri premi
- Berlinale 2023. Recensione: ROTER HIMMEL (Cielo rosso) di Christian Petzold. Partita a quattro
- Berlinale 2023. I FAVORITI all’Orso d’oro (e al premio per la migliore interpretazione).
Iscriviti al blog tramite email
Pingback: Beauty and the Beast: recensione del film