Il viaggio (The Journey), regia di Nick Hamm, sceneggiatura di Colin Bateman. Con Timothy Spall, Colm Meaney, Toby Stephens, Catherine McCormack, Ian McElhinney, John Hurt. Presentato a Venezia 2016 fuori concorso. Al cinema da giovedì 30 marzo 2017.
Scozia, 2006. Sotto la regia di Tony Blair si riuniscono i rappresentanti di protestanti e cattolici di Belfast per porre fine alla guerra civile in Nord Irland. Scatterà tra i due leader, il predicatore Ian Paisley e l’ex membro dell’Ira Martin McGuinness, un’imprevedibile chimica. Così almeno ci racconta questo film, ricostruendo il formarsi della strana coppia di ex nemici. Ma si insiste troppo con la retorica del fattore umano, contrabbandando il messaggio che con un po’ di amicizia tutto si può fare. Il resto è pura confezione british. Con Timothy Spall irresistibile Paisley che si prende tutto il film. Voto 4 e mezzo
Di quei film che portano impressa la propria britannicità in ogni inquadratura, in ogni riga della sceneggiatura. Attori magnifici, impeccabile ricostruzione di tempi e ambienti, robusta tenuta drammaturgica, in un fare cinema che si mette al servizio del racconto e mai, o raramente, produttore di immagini e visioni autonome, più cinema di mestiere che d’autore con riconoscibile impronta personale. Che è poi quanto indusse Truffaut a pronunciare – nel libro intervista a Alfred Hitchcock – la famosa e assai citata sentenza secondo cui c’è una certa incompatibiltà tra le parole cinema e british. Il viaggio è esattamente quel cinema, o non cinema, il che non me l’ha fatto particolarmente amare. Essendo oltretutto il più recente e meno brillante esempio di un genere che solo in parti anglofone ha attecchito, il riscrivere episodi relativamente recenti della Storia – diciamo del tardo Novecento primi Duemila – inventando e fictionalizzando partendo da dati reali e fatti accaduti. Per capirci, The Queen di Stpehen Frears o anche Frost/Nixon di Ron Howard, entrambi su script di Peter Morgan. In The Journey il pezzo di Storia da cui si parte sono gli incontri avvenuti nel 2006 a St. Andrews, Scozia, sotto l’egida del governo inglese e dell’allora premier Tony Blair, tra i delegati protestanti e cattolici dell’Irlanda del Nord. E tesi a stabilire una tregua e porre le basi di una conciliazione dopo decenni di guerra civile a Belfast e dintorni (con presidio, se non proprio occupazione, da parte dell’esercito britannico). A rappresentare le due parti già nemiche sono il leggendario predicatore protestante Ian Paisley, leader degli unionisti Orange, uomo intransigente e secondo i suoi detrattori ai limiti del fanatismo, un oltranzista, un lealista sostenitore della corona britannica. E dall’altro lato del tavolo il suo contraltare, il cattolico Martin McGuinness, militante repubblicano, già componente dell’Ira, l’esercito di liberazione irlandese, e tra le figure prominenti del Sinn Fein. Si cerca la pace, dopo una guerra lunga che ha sfiancato tutti. Ma si tratta di trovare un punto di incontro tra due persone che più lontane non potrebbero essere, politicamente e per storia personale.
L’accordo come sappiamo ci fu, da allora la pace in Nord Irlanda ha tenuto e il governo condiviso tra protestanti e cattolici pure. Il film immagina, perché i fatti raccontati non avvennero come li vediamo (diciamo che quella di Il viaggio/The Journey è un’estensione possibile della realtà, una verosimile fictionalizzazione), che il grande vecchio Paisley e il suo avversario McGuinness si ritrovino in macchina a condividere, fianco a fianco, lo stesso itinerario, e che questa vicinanza porti alla conoscenza reciproca e a un’imprevedibile quasi-amicizia che finisce col favorire l’accordo politico. In realta quel trasferimento in macchina a due non ci fu mai, forse (forse) ci fu un viaggio aereo insieme. Questo per capire che tipo di operazione abbia fatto lo sceneggiatore Colin Bateman. Succede (nel film) che Paisley debba a ogni costo raggiungere Belfast per festeggiare i suoi cinquant’anni di matrimonio, e mica si può mancare a una festa così, soprattutto se, come lui, si è avuta una sola donna nella vita e le si è rimasti sempre fedeli (cose che ormai non succedono più). Si tratta di raggiungere al più presto l’aeroporto di Glasgow, prima che si scateni una tempesta che potrebbe bloccare il volo previsto per Belfast. Solo che il protocollo contempla, per complicate ragioni di condivisione dei possibili rischi, che se uno dei due leader deve prendere un aereo, anche l’altro ci debba salire sopra (ma sarà vero? a me pare una forzatura di sceneggiatura). Sicché a quel volo deve partecipare anche McGuinness, e dunque sulla macchina che porterà Paisley da St. Andrews a Glasgow ci sarà anche lui. Il resto è massimamente prevedibile, snodandosi secondo l’archetipico modello narrativo dei due nemici che, costretti a convivenza forzata, scoprono vicinanze e affinità che mai avrebbero sospettato, stima reciproca ecc. Siam sempre dalle parti di Don Camillo e Peppone, anche se la location e i tempi sembrano lontanissimi dagli anni Cinquanta a Brescello. Naturalmente l’inizio del viaggio sarà un disastro, con i due che manco si guardano e figuriamoci parlarsi. Poi però, anche grazie alla mediazione del driver, un ragazzo sveglio che cerca di oliare il dialogo come può (più tardi scopriremo il perché), i due si raccontano le rispettive memorie personali, ripercorrono i lunghi decenni sanguinosi della guerra civile a Belfast rinfacciandosi colpe e responsabilità, e rischiando la spaccatura, e però poi indovinate come va a finire. Tutto secondo una drammaturgia e anche un’estetica di derivazione televisiva, anche se la matrice è la nobile tv inglese. Per carità, i dialoghi son brillanti, la regia anonima ma funzionale, non ci si annoia, solo che l’impressione è che si sia forzato troppo la Storia. Non perché si siano inventati fatti mai avvenuti, ma perché si paraculeggia smaccatamante con la melassa dei buoni sentimenti cercando di convincerci che se pace ci fu a St. Andrews, è perché scattò quella chimica speciale tra i due (ex) nemici. Insomma, si insiste con insopportabile retorica sul ruolo presunto decisivo del fattore umano. Facendo passare il semplificato messaggio secondo il quale tutto si può fare, anche la pace più complicata, se solo si riesce a stabilire un ponte emozionale tra le parti in causa. Che è un’evidente sciocchezza. Vero, Paisley e McGuinness stabilirono a St. Andrews un’alleanza di ferro, anche sulla base di un’imprevista affinità personale, che li avrebbe portati a governare insieme e in pace il Nord Irlanda. Ma The Journey esagera riducendo la Storia a storia a due. Il film è tutto sbilanciato dalla parte di Ian Paisley, il personaggio di gran lunga più interessante, nonostante, o proprio per via, del suo estremismo conservatore. E poi a interpretarlo c’è Timothy Spall, il Turner di Mike Leigh, irresistibile nella parte del vecchio leader protestante. Il film è lui, e merita la visione solo per lui.
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