L’Istanbul Film Festival/IKSV Film di cui si è conclusa la 36esima edizione lo scorso sabato 15 aprile (vigilia del cruciale referendum che ha poi visto la vittoria ai punti, e di strettissima misura, del presidentissimo Erdogan), può essere diviso grossomodo in due aree. Trattasi di descrizione semplificata, perché rendere in poche righe la mappa di un festival è complicato (per chi volesse conoscere i dettagli e le varie ramificazioni dell’IFF rimando al sito ufficiale). Dicevo: due aree. La prima dedicata a film internazionali, molti provenienti da precedenti festival, da Berlino a Venezia e Locarno, e che trova la sua apoteosi nella Competizione internazionale: per la cronaca, il Tulipano d’oro di questa sezione l’ha vinto O Ornitologo del portoghese João Pedro Rodrigues, e mai vittoria fu più meritata. La seconda area è, giustamente, una vetrina, suddivisa in più sezioni competitive e non, del cinema turco d’autore 2016/2027. Io a questo festival, il mio primo Istanbul Film Festival, ne ho visti 14, ma erano ben di più disseminati tra Competizione nazionale, Nuovo cinema turco, Documentari, Cortometraggi e Proiezioni speciali. Più una rassegna di classici del Turkish Cinema. Il Tulipano d’oro della National Competition l’ha vinto Yellow Heat (Sari Siak), e anche qui scelta ineccepibile da parte della giuria: il migliore in gara, almeno tra quelli che sono riuscito a intercettare. Ecco le recensioni per necessità veloci – con tra parentesi la sezione di appartenenza – dei 14 film turchi che ho visto a Istanbul.
Avvertenza: l’ordine è casuale, non indica alcuna graduatoria di merito o qualità.
1) Yellow Heat (Sari Sicak) di Fikret Reyhan (National Golden Tulip Competition). Voto 7 e mezzoSacrosanto vincitore del Tulipano d’oro come migliore film nazionale, Yellow Heat è anche il meglio dei 14 film turchi che ho visto al festival (qualità media devo dire non eccelsa).
In Yellow Heat/Sari Siak il regista Fikret Reyhan si allinea per asciuttezza e rigore all’ormai consolidato modello di cinema neo-neorealista europeo (dico solo, per stare sul recente, il bulgaro Godless vincitore di Locarno 2016), dove l’approccio oggettivo-documentaristico si coniuga al racconto fictionalizzato ma non troppo di vite perlopiù derelitte e sospese e protese sull’abisso della miseria. Un cinema massicciamente presente ai maggiori festival e che ha come padri nobili, continuamente e ossessivamente citati da legioni di giovani adepti, i fratelli Dardenne. Ma sullo sfondo si intravede anche come ineliminable riferimento storico il cinema anni Quaranta-primi Cinquanti dei nostri Rossellini e De Sica.
Yellow Heat – Calore giallo – ci porta dentro una famiglia di contadini turchi che, mentre avanzano l’industralizzazione dell’agricoltura e l’urbanizzazione che erode il terreno coltivabile – cerca faticosissimamente di tirare avanti con dignità. Il focus è su Ibrahim detto Ibo, uno dei due giovani figli maschi del patriarca, un ragazzo ombroso e taciturno in cerca di una via d’uscita personale da quel microcosmo angusto che sente condannato dalla storia. Il suo sogno è di prendersi la patente di camionista e scappare via dalla terra. Ma dovrà vedersela con le rigide regole interne del clan familiare e quelle esterne di una fitta rete di interessi consolidati. Il giovane regista realizza un film altamente maturo, assai compatto e consapevole di se stesso, del proprio linguaggio e stile. Parole scarne e scabre ridotte alla mera funzione d’uso, ampio ricorso all’ellisse e all’allusione come in tanto cinema autoriale di questi anni, sguardo oggettivo e (apparentemente) avalutativo. Con un’attenzione quasi cronachistica e etnologica alla cultura materiale, il cibo, il lavoro nei campi, le estenuanti trattative con i mercanti, e il massimo pudore e rispetto nell’affrontare i risvolti privati e personali. Cruciale, ma in gran parte mantenuto nel silenzio e nel non detto, e nell’assenza di ogni furore melodrammatico, il conflitto edipico tra il padre padrone (Mehmet Özgür) e il figlio (il roccioso Aytaç Uşun, premio per la migliore interpretazione maschile). Un’opposizione che ricorda certi Elia Kazan o Tennessee Williams anni Cinquanta, ma qui come asciugata e pietrificata dall’austera messinscena.
2) Zer di Kazım Öz (International Competition e National Golden Tulip Competition). Voto 6
Il caso politico del festival, dopo che due scene son state censurate in corso di proiezione – cose che a noi appaiono incomprensibili come remoti riti tribali amazzonici – con oscuramento e la scritta in sovrimpressione “a opera della Municipalità alla Cultura e Turismo”. Del fatto ho ampiamente scritto in un precedente post, cui rimando. Qui riassumo: i due oscuramenti (non tagli) riguardano il massacro da parte dell’esercito kemalista tra 1937 e 1938 di migliaia di curdi di fede alevita (una variante dello sciismo) nella zona anatolica di Dersin. Zer, opera di un regista curdo, quel crimine di stato va a raccontarlo con un certo coraggio e a riesumarlo dagli archivi fin troppo protetti e blindati, riproponendolo agli spettatori e, ebbene sì, alla coscienza nazionale. Lo fa attraverso un trattamento di fictionalizzazione, inventandosi un ragazzo di oggi – turco trapiantato con i genitori a New York – che dalla nonna moribonda sente e apprende una canzone popolare curda (lui è uno studente di etnologia musicale) dal misterioso titolo Zer. Tornerà laggiù in Anatolia, intraprenderà un viaggio solitario tra monti e valli, tra tormente e gelo verso il villaggio della nonna per scoprire il senso e il perché di quella canzone popolare. E il perché sta nel massacro di Dersin. Il film non è gran cosa, oscillando indeciso tra forme da melodramma (anche televisivo) e del più rigoroso cinema etnografico. Purtroppo il retrogusto caramellato non va via neanche nei passaggi più drammatici. E la prima parte a New York, in cui si adotta e imita un fare cinema all’americana, è fastidiosa, per non dire peggio. Resta un film importante per quello che dice e per il coraggio con cui riapre un fascicolo rimasto chiuso per decenni. Molto applaudito dal pubblico di Istanbul. Son rimasto al Q&A post-screning con il regista sperando di apprendere un qualcosa su eventuali difficoltà di realizzazione e tournage, sulla censura ecc., ma purtroppo tutto si è svolto in turco, nessuno che traducesse in inglese. Si pensava che Zer, in concorso sia nell’International Competition che in quella nazionale, si prendesse un qualche premio, invece niente. E non è proprio il caso di sospettare la giuria di autocensura o prudenza politica, visto che ha assegnato ben due premi a un altro film scomodo in cui si affronta la questione curda, Blue Silence. Prestare attenzione a questo nome, Nik Xhelilaj: è quello del giovane attore superprotagonista di Zer (non c’è scena in cui non ci sia). Trent’anni, albanese, star del cinema autoriale del suo paese, ha conquistato ottima fama in Turchia come attore soprattutto televisivo. Zer è la sua consacrazione, ha una di quelle facce benedette dal dio del cinema, è bello ma rientra nella categoria belli e possibili. Potrebbe avere una carriera internazionale se trovasse l’occasione. A Istanbul stava dappertutto, sempre gentile: alla presentazione del film, ai photocall, alle interviste, pure nella gita sul Bosforo cortesemente offerta a accreditati e addetti ai lavori dall’organizzazione del festival. Fossi un produttore europeo, lo terrei sotto osservazione.
3) Something Useful di Pelin Esmer (National Golden Tulip Competition). Voto 4 e mezzo
Un film non riuscito che ne contiene un altro assai interessante. L’innesco narrativo di questo Qualcosa di utile è difatti eccellente, con qualche affinità non di superficie e credo non casuale con Strangers on a Train di Patricia Highsmith da cui Hitchcock trasse il capolavorissimo Delitto per delitto. Peccato che non se ne replichi neanche lontanamente l’esito. E comunque qui non siamo nel thriller classico, se mai in un giallo esistenziale e morale di molti interrogativi e dubbi e di risposte eluse o sospese, e di molte, anche troppe ambiguità. In una stazione anatolica si incontrano la giovane infermiera Canan e un’avvocatessa quarantenne di nome Leyla. Si ritroveranno quella notte sul treno blu diretto a Istanbul. Si scambieranno confidenze e cose alquanto personali come capita solo tra sconosciuti, e che risulteranno decisive per entrambe. La prima nella Grande Città ha un colloquio di lavoro, la seconda una reunion con i suoi compagni di maturità. Ma la ragazzina, aspirante attrice di telenovelas turche (molto amate e stravendute in tutto il Levante), viaggia con un segreto dentro, e non insignificante. Perché a Istanbul in realtà va a praticare l’eutanasia all’amico del medico con cui lavora, un compito per cui è stata ingaggiata e ben pagata. L’avvocatessa (però di vocazione, e anche di pratica, poetessa) non ci mette granché a scoprire quale sia la vera missione dell’infermierina solo apparentemente tanto disarmata. E quando approderanno a Istanbul anche lei si lascerà coinvolgere nell’impresa, con ricadute inattese. Storia niente male. E ottime le atmosfere del treno di notte (viene in mente il remoto film anni Sessanta del polacco Jerzy Kawalerowicz) che corre attraverso il vuoto anatolico e stazioncine inghiottite da un niente metafisico. Purtroppo il film è di una verbosità e sentenziosità oltre il consentito, un fiume di parole, un bla bla in cui annega anche il buono che c’è. Con il personaggio dell’avvvocatessa-poetessa a spingere verso zone che si vorrebbero altamente riflessive su vita e morte e finiscono invece nell’arty e nel kitsch. Si discetta di massimi sistemi, come no visto il bollentissimo tema, e la poetessa perfino legge le sue poesie, il che in un film dabbene dovrebbe essere proibito per legge (con a vigilare i tribunali internazionali, quelli che si occupano di crimini contro l’umanità). Il peggio sarà quando l’avvocata incontrerà colui che vuole morire, e sarà scambio poetico-filosofico senza freni. “Ma perché non ti dedichi solo alla poesia?”, e lei, solo apparentemente ironica e in realtà compunta e compresissima di sé: “Perché con le poesie non si pagano le bollette, e poi volevo fare qualcosa di utile”; ” Ma allora ritieni che la poesia sia inutile?”, e avanti così. La regista però sa girare e ci tiene a farcelo vedere. Per esempio con quel piano sequenza circolare alla cena con i compagni di classe (peccato che le microstorie di ognuno di loro non riescano a interessarci). O nell’ultima scena che cita e in parte rifà uno dei migliori finali, e dei più virtuosistici tecnicamente, della storia del cinema, quello di Professione: reporter di Michelangelo Antonioni.
4) Inflame (Kaygi) di Ceylan Özgün Özçelik (National Golden Tulip Competition). Voto 4
Anche questo film è di una regista come Something Useful, anche questo è di ottime idee però malamente realizzate. Presentato lo scorso febbraio alla Berlinale nella sezione Panorama, me l’ero perso all’ultimo secondo. Dunque contentissimo di recuperarlo a Istanbul, pensando e sperando si trattasse di ottima cosa, come spesso dal cinema turco. Invece macché. L’idea buona assai, e per niente ovvia, è di costruire un film politico ricorrendo ai modi di uno psycho-thriller onde evitare l’effetto volantino, con al centro una giovane donna devastata da ossessioni, allucinazioni, fantasmi persecutori non si sa quanto immaginari e quanto alimentati dal reale (e non si può non pensare a Repulsion di Roman Polanski o Images di Robert Altman).
Hasret lavora in un canale televisivo di news, ha sempre avuto la massima libertà nel trattare anche i temi più sensibili, ma adesso qualcosa sta cambiando, piccole censure si succedono, pur se praticate in modi felpati e ipocriti, finché lei non si ritrova estromessa dal lavoro giornalistico di inchiesta e cronaca, e confinata al montaggio. Che si alluda alla libertà di stampa in pericolo, e all’incarcerazione di un bel po’ di giornalisti non allineati, dell’attuale era Erdogan pare evidente. L’umiliazione del downgrading professionale innesca in Hasret una crisi psicologiuca sempre più devastante, riattivando traumi fino a quel momento freudianamanete confinati nell’inconscio (sembra di rivedere il Gregory Peck di Io ti salverò), mentre la casa da cui non ce la fa più a uscire diventa la sua prigione. Scopriremo che tutto si origina da quanto successo a persona a lei molto cara, bruciata viva insieme ad altre decine di intellettuali – musicisti e letterati – da un’orda di islamisti fanatici in un albergo di Sivas nel luglio 1993. Ma il film non precisa che quegli intellettuali furono assaltati e uccisi anche perché alaviti, appartenenti a una variante confessionale dello sciismo ritenuta eretica dai sunniti estremi (me ho già scritto ampiamente nella recensione di un altro film visto a Istanbul, Zer). Purtroppo il racconto – a fronte di un tema tanto decisivo e oggi più che mai centrale come quello dell’intolleranza islamista – è pieno di goffaggini, la recitazione inadeguata per non dire peggio, e il crescendo di tensione e di rivelazioni malamente orchestrato. Peccato. Un’intuizione notevole buttata via per insufficienza-inefficienza di forma e di stile.
5) Blue Silence di Bülent Öztürk (Human Rights in Cinema Competition e National Golden Tulip Competition). Voto 7
Uno dei meglio film della selezione turca, tra i pochi che potrebbero trovare un qualche mercato all’estero. Vincitore di due premi nella sezione National Golden Tulip Competition, il premio speciale della giuria e quello per la migliore sceneggiatura. Per niente immeritati. Un film che conferma, con Zer, come la questione curda sia più che mai lacerante, confitta nel corpo della nazione turca e del suo cinema come lo era il Vietnam nell’America degli anni Settanta. Se tra i film che ho visto a Istanbul non ce n’è nessuno che non dico affronti ma almeno accenni alla controversia sul genocidio armeno (censura? autocensura? rimozione? eccessiva distanza dai fatti storici?), il problema curdo continua invece a occupare menti e immaginari. Blue Silence ci fa entrare in una speciale clinica dell’esercito dove si curano e rieducano soldati reduci da una qualche speciale missione in preda a Post-Traumatic Stress Disorder. Hakan è uno di loro, la sua personalità sembra compromessa e lesa da un qualcosa successo mentre prestava servizio. Viene dimesso, ma i suoi fantasmi (come insegnano i moltissimi film su reduci di guerra, da I migliori anni della nostra vita in avanti) continuano ad abitarlo, a non dargli tregua. Gli rimane poco, quasi niente. La moglie se n’è andata portandosi via la figlia, ogni collegamento col passato è interrotto. Hakan vaga solitario per Istanbul, aspettando che succeda qualcosa, o che qualcosa gli scatti dentro. Quando si fermerà ad osservare in una specie di Plaza de Mayo stanbuliota la silenziosa manifestazione di madri, fratelli, sorelle, figlie, figli dei molti desaparecidos curdi, verrà subitamente convocato da un superiore militare che gli ingiungerà di non farlo un’altra volta, pena gravi provvedimenti. Per dire quanto la questione sia tuttora tabù. Come in un processo psichico di film tipo Improvvisamente l’estate scorsa, il trauma riaffiorerà, e noi capiremo cosa ha fatto di Hakan l’uomo perso che ora è. Lentezza, rarefazione, lunghi silenzi. Una narrazione che procede per ellissi, ma che va sicura al suo obiettivo. Qua e là qualche sbavatura sentimentalista, come nell’incontro tra padre e figlia, ma la sobrietà resta il tono dominante. Grazie anche al suo protagonista Teoman Kumbaracıbaşı, una di quelle facce virili che lasciano solo intuire il tormento interiore. Buon film, anche se privo di particolari audacie stilistiche o narrative.
6) All Felicities Are Possible di Selman Kılıçaslan (National Golden Tulip Competition). Voto 6 e mezzo
Si potrà parlare di un cinema erdoganiano? E non mi riferisco a film chiaramente di propaganda pro-presidente come il biopic Reis (non presentato al festival) di cui ho scritto in un precedente post. Se mai a un cinema che intercetti e conceda spazio di racconto al sentire della Turchia tradizionale, quella non urbana, quella lontano-anatolica affondata nei modi e nei valori musulmani, in una fede che pervade e configura la vita quotidiana e la vita tutta. Quella che ha trovato in Erdogan il suo alfiere dopo la lunga stagione, lunga quasi un secolo, di secolarismo kemalista. Ecco, se quel cinema esistesse, Tutte le felicità sono possibili potrebbe farne parte, con il suo elogio del piccolo e però immenso mondo della tradizione che sembra dapprima intrappolare il giovane protagonista, per poi invece offrirgli un orizzonte di senso. Lui è uno studente di ingegneria ansioso di fare il suo Erasmus in Scozia, ma finirà col rimanere, perché, suggerisce il film, devi stare dove sta il tuo passato. Discutibile? Come no. Io però mi limito a osservare l’insolita purezza dello sguardo registico, il rispetto con cui i personaggi vengono raccontati, la sobrietà pudica e il tono sommesso di un autore che in certi passaggi ricorda il migliore Ermanno Olmi.
Il giovane ingegnere si chiama Ali e, seguendo e inseguendo una ragazza da cui è rimasto folgorato sentendola cantare in una cave, conoscerà il vecchio signore di cui lei è l’infermiera-badante. Quando la ragazza sarà costretta a scappare dalla piccola città, sarà lui a prenderne il posto accanto al vecchio. Che se ho bene inteso vien chiamato Haajj, l’appellativo di chi ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Difatti il vecchio uomo vedovo, solo e malato, è un devoto, esemplare incarnazione di quell’Islam pio e popolare assai centrato sui precetti da adempiere nel proprio quotidiano, sulla correttezza del proprio agire, e molto lontano dai fanatismi. Condividendo il suo tempo con lui, e grazie anche a un amico libraio che cita Dostojevsky insieme ai mistici sufi, Ali capirà che quella vita semplice e frugale è quello di cui ha bisogno. Altro che Erasmus a Edinburgo. Dite che trattasi di film reazionario nel suo ritirarsi in un piccolissimo mondo antico? Forse. Però a me questo elogio del vivere secondo tradizione e onestà è piaciuto – Dio mio, c’è pure qualcosa da salvare anche nelle comunità chiuse e ripiegate su se stesse, mica dobbiamo sempre marciare sull’opposizione tra localismo-particolarismo e mondialismo -, e mi è piaciuta la pulizia formale di Tutte le felicità sono possibili, che è scelta prima etica che estetica. Un film che temo non vedremo mai in nessun festival europeo e su nessuna piattaforma VOD. Troppo conservatore per il gusto medio (e unico) di critici e spettatori delle nostre parti.
7) The Bank of Broken Hearts di Onur Ünlü (National Golden Tulip Competition). Voto 4
Il più matto, e anche indigeribile, tra tutti i film turchi che ho visto all’IFF. Da farsi venire i balordoni per quanto è sovreccitato, survoltato, frenetico, sgargiante, ultrapop. Con molto Tarantino (un cattivo maestro?) nel tono disinvolto-grottesco-cinico con cui affronta il male e il lato violento e sordido della vita, e ahinoi pure con un bel po’ del Baz Luhrmann più sberluccicato e esteriore, tanti neon pulsanti, tanta musica e musicaccia a scuotere corpi e distruggere timpani. Oltretutto me lo sono visto in scomodissima anzi impossibile posizione (avrà influito sulla mia percezione?), seduto sul pavimento del cinema Atlas dietro l’ultima fila di poltrone, e senza neanche potermene stare accovacciato, no, solo disteso di sghimbescio. Una tortura (per dire quanto son masochista quando si tratta di ingurgitare cinema ai festival). È che questo La banca dei cuori spezzati era chissà perché attesissimo, forse per via di precedenti successi a me ignoti del suo regista, tant’è che quando ho chiesto il biglietto stampa alle cortesissime ragazze (più un ragazzo) del press offfice (applausi per loro: tutti affabili, simpatici, efficienti, competenti) non ce n’erano più, e tutto esaurito pure alla cassa del cinema. Mi hanno fatto entrare giustamente per ultimo, dopo tutti i possessori di legittimo ticket, e mi son dovuto sistemare in quell’assurda posizione. Non c’erano alternative.
E però, a parte questa infelice proiezione, che bello mettere piede all’Atlas sulla Istiklal Caddesi, uno dei cinema strategici del festival, incassato in uno di quei passage-bazaar che nella zona di Beyoglu stan dappertutto. Piccola multisala da città, tipo il Colosseo o l’Eliseo a Milano, però con dentro il senso del cinema perduto di ieri e i suoi gloriosi fantasmi, quelli del grande cinema americano e quelli del cinema turco popolare, amatissimo e vitalissimo tra anni Cinquanta e Settanta, di cui l’Atlas è un tempio faticosamente sopravvissuto e adattato ai tempi nuovi. Ma sopravvissuto vivaddio e ancora con gente che fa la fila per comprare il biglietto: in uno dei salon – così son chiamate le sale – era in programma il nuovo Fast and Furious prima che uscisse in Italia. Con tutti i suoi stucchi, i capitelli fintoclassici, le affiche, i meravigliosi ritratti di divi americani e turchi alle pareti, l’Atlas è una godimento. Pure con impeccabile digitalizzazione della sala, ottima visione, ottima qualità di proiezione. Certo, ci sono ancora usi turchi. Benché sul biglietto siano indicati fila e posto, manca in sala la numerazione delle file (i sedili invece sì), sicché ci sono due maturi signori che ti guatano il ticket e con fare spiccio e anche brusco ti indicano la tua seduta e se proprio non capisci ti ci accompagnano, anzi ti ci spingono. Efficienti, velocissimi, anche autoritari, e parlanti naturalmente solo turco. Lo stesso succede nel cinema proprio di fronte all’Atlas, sull’altro lato della Istiklal Caddesi, il Beyoglu, una sala soltanto, una cafeteria per aspettare sorseggiando qualcosa, e un’aria da cineclub.
Scusate la digressione, e torniamo a me seduto malamente aspettando La banca dei cuori spezzati. Uno di quei film rompicapo e così strapieni di roba, e di quello sfrenato barocchismo che va probabilmente a esorcizzare un inconscio horror vacui dell’autore, che non son proprio la mia tazza di té, per via che sono più portato ai climi cinematografici austeri e rarefatti, anche un po’ calvinisti e punitivi, e il lussureggiare schermico mi comunica sempre un senso di colpevole peccato. Oltretutto a Istanbul tutti a dire in area festival, a partire dalla sinossi, che si tratta di una rivisitazione di Romeo e Giulietta (ancora!) ricollocato nello storico quartiere stanbuliota di Galata. Quartiere percorso nel film, anzi fratturato, dalla rivalità tra due bande semicriminali che sono anche due squadre amatoriali di calcio ch ogni tanto si incontrano e si scannano sul campo da gioco. Succede che uno di una parte si innamori di una tizia dell’altra parte, una tossica che fa da prostituta regina nel club-bordello gestito dal boss del clan. Bene, uno pensa a Romeo+Juliet di Luhrmann, anche per via della visualità sbalordente e sfacciata, e si mette buono buono ad aspettare i prevedibili sviluppi. Invece macché, il film svolta su qualcos’altro che non si capisce bene, verso un noiraccio dove Romeo e Gulietta son comparse casuali o poco più. Un impossibile guazzabuglio, se preferite pastiche, con dentro due cuori espiantati e in attesa di reimpianto, uno buono e pulsante, l’altro marcio. E un chirurgo corrotto, un’infermiera bbona con un suo piano segreto, un corrotto imam della vicina moschea che ha tradito la sacralità del suo ruolo fornicando anni addietro con un’amante e avendo da lei un figlio, ora giovane uomo devastato da vizi e malattie. Intanto l’una e l’altra banda fan colpi in banca, e si affrontano dove capita. Ad aumentare la temperatura già alta del film ecco anche il personaggio di una transessuale, parte attiva della sua gang sia come rapinatrice sia come calciatore. Non bastasse, il regista ambiziosamente, per farci capire che lui fa cinema altro e oltre, mica mainstream, scompone il racconto in tre spezzoni, con la stessa storia raccontata e riproposta da tre punti di vista diversi. Bene, sono uscito stremato dalla visione per via dell’incomoda sistemazione, ma anche avendocela con il regista responsabile di tanto delirio e supponenza. Comunque applaudito con calore dal pubblico, mentre io faticosamete cercavo di ralzarmi e di scappare al più presto.
8) Inside (Mahalle) di Buğra Gülsoy e Serhat Teoman (National Golden Tulip Competition). Voto 6 e mezzo
Una discreta sorpresa. Un film che parte come un black comedy pulpeggiante e tarantinata, ma anche con ampi echi dai fratelli Coen, per poi virare in sanguinolenta resa dei conti interna e in dramma morale. Con il difficile passaggio da un registro all’altro maneggiato e pilotato con un certo mestiere dalla coppia registica. Siamo in un sobborgo semibenestante di Istanbul, piccola e piccolissima borghesia con i suoi agi, casa confortevole, macchina e tutto il resto che ci vuole. Le signore si scambiano visite, i masculi, sposati e non, si ritrovano a giocare a calcio su un campetto o al bar. Tutto normale, ma allora perché tre giovani padri di famiglia del quartiere hano rapito un poveretto dall’aria sbiadita e innocua e lo tengono prigioniero nella cantina di uno di loro? E perché lo torturano e maltrattano sadicamente? Tutto procede tra goffaggini e crudeltà-ma-non-troppo degli improvvisati rapitori, mentre la notizia di quanto hanno combinato si propaga in tutto il vicinato, nell’approvazione, anzi nel plauso, generale. È che il tizio rinchiuso in cantina – scopriremo in corso di narrazione – è un loro vicino pedofilo, o almeno sospetto tale, e i tre hanno deciso di farsi giustizia dopo che una delle loro figlie è stata (forse) insidiata. Ma le cose prenderanno un piega storta, e si rivelerenno al solito più complicate del previsto. Buono davvero. Sconnesso e scatenato al punto giusto. E però sapientemente costruito intorno a un dilemma morale importante. Introdotto e chiuso dalla lettura, non saprei dire se di un passo dal Corano o da un altro testo religioso, di un brano su Sheitan – Satana – quale fonte e pericoloso signore del male su questa terra. Dunque, un film sul Male. Già, ma dove sta il Male in questo film? Nel rapito o nei tre rapitori? La citazione di apertura e chiusura induce alla considerazione che anche in un film così incline – nei suoi modi tra il pulp, il grottesco e il demenziale – a certi estremismi da cinema indie americano, il richiamo all’Islam c’è, ed è corposo, potente. Qualcosa che si ritrova in quasi tutti i film turchi di nuova generazione visti a Istanbul. Come se il richiamo alla religione fosse necessario, inestirpabile e ineludibile. E qualcosa vorrà pur dire.
9) The Seagull (Marti) di Erkan Tunç (National Golden Tulip Competition). Voto 4 e mezzo
Pretenzioso è dir poco. Con evidenti benché confusissimi e balordi richiami al Gabbiano di Cecov, di cui verso la fine spunta un monologo. Turchia profonda e Turchia urbana e spregudicata in un confronto che all’inizio è di massima ovvietà (uffa, ancora i disinvolti costumi amorosi dei cittadini contrapposti alla repressione sessuale e della donna del contado), ma che poi – ed è il solo merito del film – si complesssifica e riesce ad evitare i cliché più sdati, anche se non si capisce dove si voglia andare a parare. Dunque: Yakup, un piccolo uomo qualunque laborioso e pio, responsabile di un allevamento di polli nell’entroterra di Izmir (Smirne), si ritrova a fare da badante e trainer a Riza, il nipote mandato lì dal padrone acciocché apprenda, nullafacente com’è, un lavoro. Con lui è arrivata anche la moglie Nurgül, i cui modi metropolitani sconvolgono il buon Yakup, e ancora di più la di lui govane moglie Mediha. Eppure si consoliderà un rapporto fatto di reciproca curiosità tra le due coppie che finirà con lo scombinare parecchie certezze, da una parte e dall’altra. Peccato che The Seagull prenda a un certo punto la strada del noir, con una banda criminale all’inseguimento non si capisce bene di chi e per che cosa, e con molteplici twist e colpi di scena che rendono quasi inintellegibile il film. Film che finirà con vincitori e vinti, e però non si capisce perché a essere beffato e punito debba essere Yakup, tradizionalista sì, ma un buono e puro di cuore. Stracultistica la sequenza in cui l’emancipata moglie cittadina presta il marito stallone alla sposa di Yakup perché rimanga incinta (all’insaputa di lui, ovvio). Un film del disordine, che rifiuta programmaticamente la pacatezza e il bon ton, cinematografici e non solo, per un caos che si vorrebbe anarchico e sovversivo, ma che produce solo stanchi e datatissimi avanguardismi. L’impressione è che si tratti della trasposizione in film di uno spettacolo di un qualche teatro sperimentale di Istanbul. Ma potrei sbagliarmi.
10) The Stone (Taş) di Orhan Eskiköy (National Golden Tulip Competition). Voto 4 e mezzo
Di quei film silenti, lenti, austeri, contemplativi che portano stampigliato su ogni fotogramma il messaggio ‘sono un film d’arte e d’autore’. Con quel che di pirandelliano – “ma è lui o non è lui?” – che fa sempre Opera Alta prossima al Capolavoro. Solo che questo Taş capolavoro non ce la fa a esserlo. Nella solita profondissima Anatolia (che nel cinema turco, e immagino pure nell’immaginario, è quello che per il cinema italiano è stato per molto tempo il nostro Sud, insomma uno scrigno di tradizioni anche oscure, un’arca di costumi ancestrali, il luogo del tempo immobile) una donna crede di riconoscere in un ragazzo ferito e mentalmente debilitato il figlio perduto tanti anni prima. Mentre un uomo minaccioso e armato lo insegue per oscuri motivi terrorizzando la famiglia e il villaggio. Il tutto in un paesaggio scabro e inospitale, dominato da uno strano monumento forse preistorico, una specie di nuraghe caduto e slabbrato, cui si attribuiscono misteriosi poteri. Afflitto e appesantito da simbolismi a catena, e da un andamento lento da cerimonia sacra, da rito sacrificale, La pietra tende pericolosamente allo psicodramma rusticano, solo con molti silenzi al posto del furore e del grido mélo. Mah.
11) Clair Obscur (Tereddüt) di Yeşim Ustaoğlu (National Golden Tulip Competition). Voto 4
Forse la produzione turca più ambiziosa, e ambiziosamente internazionale, tra quelle del festival. E però anche questo Clair Obscur affetto da una pretenziosità, una pososità, un’affettazione da film altoautoriale insopportabili. La giuria comunque ha incredibilmente gradito, premiando Yeşim Ustaoğlu come migliore regista, Aytaç Uşun come migliore attrice e Antoni Komasa-Lazarkiewicz per la colonna sonora. Ambizioni internazionali, dicevo, tant’è che tra i finanziatori figurano la tedesca ZDF, la franco-tedesca Arté e un fondo polacco per il cinema. Eppure risultati scarsi. Anche qui si mettono a confronto-scontro le solite due Turchie diverse, l’emancipata-cosmopolita-moderna e l’arcaica-patriarcale affondata nei suoi (apparentemente) immutabili riti e valori. Film tutto al femminile, con una regista alla mdp e due protagoniste. La bellissima Şehnaz è psicologa nell’ospedale di una piccola città, “a remote seaside town” come dice la sinossi (e il mare, viste la cupezza e tristezza, suppongo sia il Mar Nero), la giovanissima Elmas è invece malmaritata a un maturo signore che l’ha comprata dalla famiglia, costringendola a coabitare con l’invadente e prepotente suocera malata di diabete. Una disperata. Succederà un fattaccio di cui Elmas verrà sospettata, e incaricata di capire se sia colpevole o innocente, e di toglierla dal suo silenzio murato e farla parlare, è proprio la psicologa ultracool. Abiti firmati vs costume tradizionale anatolico. Non bastasse l’usurato cliché delle due Turchie contrapposte, dobbiamo sopportare simbolismi e scene oniriche da film cecoslovacco anni Sessanta, con acque (marine perlopiù) a significare e metaforizzare non si sa bene cosa e però assai presenti, e dunque ecco tremende e lunghissime inquadrature di nuca o pensosamente frontali di Şehnaz a bordo mare. Terribile la parte con il marito figo e stronzo (che sia stronzo lo spettatore lo capisce subito, lei, Şehnaz, no), modellata visivamente su certi commercial fashionisti, e dunque via con spregiudicatissime quanto finto-levigate scene di sesso a dire ‘questo è un film internescional’. Al limite del non-guardabile la lunghissima sequenza (mi par di ricordare senza stacchi) in cui la psy cerca di far parlare la sospettata invitandola a raccontare e rimettere in scena il suo passato con l’aiuto di certe matite colorate. Miseria della psicologia, anzi dello psicologismo. E però Clair Obscur è tanto piaciuto a pubblico, giuria e addetti ai lavori. Non capisco. Probabile che troverà, vista la coproduzione tra Turchia, Francia, Germania e Polonia, una distribuzione in Europa. Con la speranza da parte di chi ci ha messo i soldi di replicare almeno un po’ del successo toccato un paio di anni fa a un altro film di una regista turca, Mustang, vincitore alla Quinzaine a Cannes di un premio e arrivato poi vicino all’Oscar come migliore film straniero. Solo che qui non siamo allo stesso livello.
12) Groom’s Block di İlker Savaşkurt (New Turkish Cinema). Voto 6 meno
È in programmazione nei meglio cinema italiani (a Milano sta al Beltrade) Un altro me, documentario girato da Claudio Casazza all’interno del carcere milanese di Bollate nel braccio dei sex offenders, i condannati per reati sessuali. Documentario che ci mostra alcuni detenuti nel loro vivere quotidiano – sfuocandone le facce – e mentre partecipano a una speciale terapia riabilitativa collettiva guidata da operatori specializzati. Please, andatevelo a vedere, anche se non ho ancora avuto modo di scriverne una recensione articolata e argomentata. Ecco, non ho potuto non pensare al docu di Claudio Casazza mentre a Istanbul mi guardavo questo Groom’s Block, il Blocco dello sposo, come vien chiamato in un non precisato carcere turco l’ala riservata agli stupratori, pedofili e quant’altro, insomma ai sex offenders. Ma il clima non è mica quello di Bollate, siamo più dalle parti del lercio e brutale prison movie tipo l’indimenticato Fuga di mezzanotte che mostrò a tutto il mondo, raccappricciando le anime belle, quale inferno dei vivi fossero le carceri turche. In questo film di fiction, per niente documentario anche se massimamente realistico, non si trattano certo in guanti bianchi i signori detenuti, non si mira alla loro riabilitazione e alla loro ripulitura per restituirli non più pericolosi alla società, no, i condannati per reati sessuai li si butta nel più fetido braccio del già fetido carcere, li si chiude dentro e che si arrangiassero a sopravvivere. Il film è truculento, ma francamente visto il tema mi aspettavo una selvaggeria anche maggiore (l’ambizione al film alto-autoriale deve aver funzionato da freno e filtro). Indeciso com’è tra cinema di denuncia – in questo caso delle condizioni dei detenuti e del degrado delle carceri – e pura exploitation, non ce la fa a essere davvero né l’una né l’altra cosa. Senza un asse narrativo forte (la pista del detenuto buono e debole che diventa il capro espiatorio, la vittima designata, lo schiavo del gruppo di carcerati, è troppo labile e troppo spesso abbandonata per riuscire a esserlo), con troppi personaggi scarsamente messi a fuoco, con un andamento sussultorio che lascia ampie zone inesplicate, Groom’s Block finisce con il deludere nonostante qualche scorcio allarmante al punto giusto. Naturalmente c’è il direttore del carcere cinico e fetente, pronto a ogni bassezza pur di restare sulla sua poltrona, c’è il boss criminale che dalla sua cella comanda tutto il carcere e governa con spietatezza quella folla di pervertiti. C’è l’innocente ingiustamente incarcerato che, essendo il più fragile, deve fare la donna (fors’anche sessualmente) e cucinare e rassettare e pulire per tutti. C’è il disperato che si suiciderà. C’è l’omosessuale psicotico. E quando arriva un pedofilo il direttore incarica il boss della mala di pensarci lui, e sarà selvaggia esecuzione in cella. A tinte foschissime, eppure non così estremo come ci si sarebbe aspettati e si sarebbe voluto. Poteva mancare la sodomizzazione da parte dei carcerieri del più indifeso dei detenuti? Certo che no, perché l’abbiamo visto fin dai tempi di Lawrence d’Arabia come vengono trattati da quelle parti certi bellocci dietro le sbarre. “Ti hanno già fatto l’ispezione?”, chiedono alla vittima designata, intendendo per ispezione quella anale, of course. Se riesce ad afferrare il treno del virtuoso cinema di denuncia questo Groom’s Block potrebbe anche arrivare su qualche mercato straniero: c’è sempre in Europa qualcuno ansioso di indignarsi e mobilitarsi per nuove cause.
13) Don’t tell Orhan Pamuk that his novel Snow is in the film I made about Kars di Rıza Sönmez (New Turkish Cinema). Voto 7
Un piccolo film fatto di niente e però arguto, pieno di leggerezza, di un’ironia sorridente che ricorda qua e là il cinema di Ioseliani. Girato del resto a Kars, estremo nord-est anatolico vicino alla Georgia che di Ioseliani è la patria. Diverso da tutti gli altri film turchi che ho visto nel suo essere commedia svagata e perfino lunare, benché impegnata nel descrivere anche minuziosamente bellezze e attrattive, e usi e tradizioni e cucina e canti, della città di Kars. Sorge perfino il dubbio che il film sia stato commissionato dal locale ente del turismo (e se così fosse, non ci sarebbe intendiamoci niente di male), da come si ingegna a dare della città quasi ai confini con Georgia e Armenia – e che fu russa per parte della sua storia – , un resoconto quasi da Lonely Planet o pagina di Wikipedia. Ecco il castello, ecco il piatto più famoso della nostra cucina, ecco la nostra tradizionale danza delle spade e i nostri bei costumi ecc. ecc. Solo che- ammesso e non concesso che questo fosse il mandato – il regista svolta il film con almeno un paio di bellissime invenzioni dal mero documentario turistico verso un’opera cinematografica a tutti gli effetti dotata di una forza propria, e di una propria identità. E allora giù il cappello e massimo rispetto. Non dite a Orhan Pamuk che il suo romanzo “Neve” è nel film che ho girato a Kars è l’interminabile ma anche assai spiritoso titolo di questo guizzante e fresco racconto per immagini. Qualche spiega si impone: che c’entra lo scrittore premio Nobel venerato come un totem nazionale da Istanbul alla Cappadocia? Chi ha letto Neve, forse il suo capolavoro, ricorderà come si svolga per la maggior parte proprio a Kars, descritta come un avamposto freddo e remoto del paese, una marca di confine dove anche vite e destini sembrano fluttuanti, ambigui e incerti. Ebbene, quel libro di gran successo in tutto il mondo ha alimentato e continua a alimentare un piccolo turismo di devoti di Pamuk che vanno fino a Kars per rintracciare di Neve i luoghi e le atmosfere. Ed ecco che il regista si inventa, ed è un’idea meravigliosa, il personaggio di un signore che nel suo negozio di barbiere vende cartoline dei luoghi e dei personaggi del romanzo, ritratti che ha ottenuto fotografando uomini, donne, bambini, ragazzi, vecchi corrispondenti alle descrizioni di Pamuk. Pura finzione, pura simulazione, ma con un formidabile effetto di inveramento, tant’è che i turisti letterari son sedotti da quella raccolta. L’altro gran personaggio del film è quello di un vecchio cantante cieco di canzoni popolari il quale deve mettere su uno spettacolino per un ospite importante. Solo che quasi tutti i musicisti in città sono impegnati altrove, a Erzurum, per un contest, e lui, facendosi accompagnare da qualche persona di buon cuore, batte tutti i quartieri per convincere almeno qualcuno a suonare con lui. Sicché attraverso il cantante cieco e lo strambo barbiere-fotografo che dà una faccia ai personaggi immaginati da Pamuk il film ci fa conoscere Kars, chi ci abita, creando sotto i nostri occhi una mappa dei costumi antichi e nuovi, dei luoghi mirabili, dei piatti della tradizione. E della musica, naturalmente, bella e struggente come ci si aspetta. Con tre musicanti-folletti che in costumi tradizionali inseguono per tutto il film il cantante cieco, e qui siamo proprio in Ioseliani (e anche un po’ in Fellini). Irresistibili la gara in tv di assaggio della migliore zuppa in città. Come trasformare il vincolo di un (presunto, visto che trattasi di mia illazione) docu turistico in opportunità.
In fondo, il regista Rıza Sönmez nel dare volto e corpo, per quanto cartacei, ai personaggi immaginati da Pamuk in Neve, non fa altro che ispirarsi all’operazione fatta dallo stesso scrittore con il suo Il museo dell’innocenza. Romanzo che prima è la storia d’amore egoista quanto pazza di Kemal per Füsun, poi ricostruzione minuziosa e feticistica da parte di lui di quel che è stato e non è stato con lei. Kemal che, dopo aver lasciato e mai dimenticato Füsun, la ritrova e ne diventa il fedele per quanto platonico accompagnatore, colui che le edificherà un monumento imperituro, raccogliendo i suoi oggetti – a partire dai mozziconi di sigaretta segnati dalla sua bocca e dal suo rossetto – nel Museo dell’innocenza a lei dedicato. Un’invenzione letteraria che si è poi tramutata in realtà concretissima, dando vita al vero Museo dell’innocenza, oggi una delle mete da non perdere a Istanbul. In una piccola casa rossa su tre piani del quartiere di Çukurcuma nella zona europea di Beyoglu, ecco che il Museo descritto nel romanzo si materializza davanti ai nostri occhi, su progetto credo dello stesso Pamuk. Con la panoplia dei mozziconi di sigaretta, e con tutti gli oggetti descritti puntualmente messi in bacheche e vestrinette. Con alle pareti anche le pagine manoscritte con correzioni di Pamuk. Ed è una visita da fare, perché quegli oggetti (dalle bibite alle cartoline, dalle carte di identità alle foto di famiglia ai manifesti cinematografici) non raccontano solo la storia di Kemal e Füsun, ma anche la Istanbul tra anni Sessanta e Settanta, colta nella sua parte altoborghese e cosmopolita di bella gente, belle donne, belle vite e bellezza di vivere. In fondo il barbiere-fotografo di Non dite a Orhan Pamuk che il suo romanzo “Neve” è nel film che ho girato a Kars non fa altro che replicare su scala minore, e applicandola a Neve, l’operazione compiuta dallo stesso scrittore con Il museo dell’innocenza di dare corpo a un’immaginazione letteraria.
14) The Last Leaf di Handan Erdil (National Documentary Competition). Voto 7 e mezzo
Così muore una comunità greco-ortodossa in Turchia. Per la precisione a Kınalıada, una delle Isole dei Principi nel Mar di Marmara, al largo della costa asiatica di Istanbul. Un documentario bello e commovente su un signore di 85 anni di nome Mihal Şişko che – ci mostra il film della regista Handan Erdil – continua a lottare indomito per tenere aperta e almeno in parziale attività la chiesa ortodossa di Kınalıada. Lui in quell’isola è nato, è vissuto, restandoci ostinatamente anche quando tutti andavano via, perlopiù in Grecia. “Sono l’ultima foglia di un albero un tempo rigoglioso”. Non c’è più un pope, nella chiesa, lui, laico, fa quel che può, recita le preghiere, la tiene in ordine, soprattutto in occasione delle feste più importanti come la Pasqua. Lustra e fa lustrare alla fedele e burbera governante (turca, e si immagina musulmana) le preziose coppe rituali, gli ori scintillanti. E bisogna pulire, salvare non solo gli oggetti sacri e le icone, ma anche i paramenti, gli arredi. Per restare fedele al suo passato e alla sua identità (la sua era una famiglia di pescatori approdati nell’isola quando a essere numericamente egemoni erano gli armeni, mentre i musulmani erano solo una sparuta minoranza: “non avevano neanche la moschea allora”) Mihal ha deciso di rimanere anche pagando il prezzo del divorzio dalla moglie, decisa ad andarsene dalla Turchia con o senza di lui (e se n’è andata sola). Qualcuno gli fa visita, più che fedeli locali, ormai in via di sparizione, sono amici, parenti, parenti di amici, ex membri della comunità emigrati altrove che ogni tanto ritornano, spinti dalla nostalgia e dal bisogno di rivedere il centro della loro vita spirituale negli anni giovani. Non vengono lanciate accuse da parte del custode-sacrestano contro i musulmani, non vengono da lui ricordati momenti di particolare difficoltà o frizione. Eppure quella chiesa vuota, quella comunità scomparsa, come implosa, qualcosa dicono di quello che lui non dice, o non vuole o non può dire. Ci parlano di una presenza cristiana sempre più ridotta, ormai residuale, circondata da un clima più ostile che amicale, nel migliore dei casi indifferente.
Per costringere Mihal Şişko ad abbandonare la sua casa, la sua chiesa, la sua badante-governante, ci è voluta la morte. Arrivata a riprese appena concluse. Mihal, tu sei un eroe, gli dice un sacerdote arrivato un giorno a celebrare, e questo film è il giusto monumento postumo all’eroe. Bellissimo, e spero che qualcuno lo porti in Italia, lo faccia vedere, lo faccia circolare. In sala dopo la proiezione c’erano la fedele governante e la sorella di Mihal. Ora è lei la presidente della minuscola comunità ortodossa sopravvissuta a Kınalıada, tocca a lei continuarne la storia, farsi testimone di un passato che non non deve essere azzerato. Non bisogna dimenticare, lo sappiamo fin troppo bene, anche se a dirlo si rischia la vuota retorica. E il cinema grazie a Dio serve anche a questo.
All’Istanbul Festival c’era anche un altro documentario su un’altra minoranza etnoreligiosa, inserito tra gli Special Screeninga, A Fading Language, A Fading Cuisine (Una lingua e una cucina in via di sparizione). Dove si cerca di catturare quel che resta, e che rischia di essere cancellato con la scomparsa degli ultimi testimoni, della vita e della cultura materiale degli ebrei sefarditi turchi, discendenti da coloro che furono espulsi dalla Spagna nel 1492 e accolti dall’impero ottomano. Portandosi appresso una lingua che non avrebbero mai abbandonato, il ladino, e musica, e ricette di cucina che poi si sarebbero ibridate con quelle della tradizione ottomana. Purtroppo non ce l’ho fatta a vederlo, il guaio è che all’Istanbul Festival i film turchi vengono proiettati solo una volta e solo di alcuni c’è anche una proiezione stampa (di questo non c’era). Cercherò in qualche modo di recuperarlo: sarà dura.