Yellow Heat (Sari Sicak) di Fikret Reyhan, con Aytaç Uşun, Mehmet Özgür, Gökhan Şimşek. Vincitore del Golden Tulip della National Competition all’Istanbul Film Festival 2017.
La dura vita di una famiglia si contadini che non ce la fa più a sopravvivere in un’economia che sta cambiando. La silenziosa ribellione del figlio, che sogna di scappare da quel mondo senza futuro. Voto 7 e mezzo
Sacrosanto vincitore del Tulipano d’oro come migliore film nazionale, Yellow Heat è anche il meglio dei 14 film turchi che ho visto al festival (qualità media devo dire non eccelsa).
In Yellow Heat/Sari Siak il regista Fikret Reyhan si allinea per asciuttezza e rigore all’ormai consolidato modello di cinema neo-neorealista europeo (dico solo, per stare sul recente, il bulgaro Godless vincitore di Locarno 2016), dove l’approccio oggettivo-documentaristico si coniuga al racconto fictionalizzato ma non troppo di vite perlopiù derelitte e sospese e protese sull’abisso della miseria. Un cinema massicciamente presente ai maggiori festival e che ha come padri nobili, continuamente e ossessivamente citati da legioni di giovani adepti, i fratelli Dardenne. Ma sullo sfondo si intravede anche come ineliminable riferimento storico il cinema anni Quaranta-primi Cinquanti dei nostri Rossellini e De Sica.
Yellow Heat – Calore giallo – ci porta dentro una famiglia di contadini turchi che, mentre avanzano l’industralizzazione dell’agricoltura e l’urbanizzazione che erode il terreno coltivabile – cerca faticosissimamente di tirare avanti con dignità. Il focus è su Ibrahim detto Ibo, uno dei due giovani figli maschi del patriarca, un ragazzo ombroso e taciturno in cerca di una via d’uscita personale da quel microcosmo angusto che sente condannato dalla storia. Il suo sogno è di prendersi la patente di camionista e scappare via dalla terra. Ma dovrà vedersela con le rigide regole interne del clan familiare e quelle esterne di una fitta rete di interessi consolidati. Il giovane regista realizza un film altamente maturo, assai compatto e consapevole di se stesso, del proprio linguaggio e stile. Parole scarne e scabre ridotte alla mera funzione d’uso, ampio ricorso all’ellisse e all’allusione come in tanto cinema autoriale di questi anni, sguardo oggettivo e (apparentemente) avalutativo. Con un’attenzione quasi cronachistica e etnologica alla cultura materiale, il cibo, il lavoro nei campi, le estenuanti trattative con i mercanti, e il massimo pudore e rispetto nell’affrontare i risvolti privati e personali. Cruciale, ma in gran parte mantenuto nel silenzio e nel non detto, e nell’assenza di ogni furore melodrammatico, il conflitto edipico tra il padre padrone (Mehmet Özgür) e il figlio (il roccioso Aytaç Uşun, premio per la migliore interpretazione maschile). Un’opposizione che ricorda certi Elia Kazan o Tennessee Williams anni Cinquanta, ma qui come asciugata e pietrificata dall’austera messinscena.
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