Festival di Cannes 2017. Recensione: WESTERN, un film di Valeska Grisebach. Scontro di civiltà in un angolo remoto d’Europa

bb1238bfebfed6fbe759f70d5d659237Western, un film di Valeska Grisebach. Con Meinhard Neumann, Reinhardt Wetrek, Syuleiman Alilov Lefitov. Un Certain Regard.
95426a71932715a784eb732f0eb49ce8Un gruppo di tedeschi ha l’incarico di costruire un’infrastruttura in un remoto angolo di Bulgaria. Sarà incontro e soprattutto scontro con la comunità locale, con le sue tradizioni e le sue nuove corruzioni. Una giovane regista mette a nudo, con un approccio documentaristico e quasi etologico, la retorica dell’Europa dei molti popoli, rivelando le fratture e le diversità che ancora separano. Voto 7 e mezzo
e9cdff9ff7d36288eaf8283d658698eaIo di questo film ci coproduzione bulgaro-tedesca mi sono innamorato. Un coup de coeur come dicono quegli smancerosi di francesi, solo che in Western il colpo è se mai alle viscere per come il film è tosto, duro e lucido. Per come va a guardare in un angolo estremo dell’Europa, anche intesa ome Unione Europea, smontando ogni favola bella e politicamente virtuosa della convivenza tra i popoli e indagando le faglie che neanche tanto sotterranemaente la attraversano e la sezionano separando una cultura dall’altra, un’appartenza dall’altra, una visione del mondo dall’altra. Western sarebbe un grandissimo film se non fosse per il finale monco, sospeso più che aperto, pavido e rinunciatario. Ma non si può aver tutto da una regista che, se ben ricordo, si presenta per la prima volta a Cannes. L’idea sua è di seguire, nei modi dimessi del documentario o cinema del reale come usa dire adesso, un gruppo di lavoro tedesco incaricato di costruire un’infrastruttura (anche se non ho capito quale) in una landa estrema della Bulgaria al confine con la Grecia. Tutto è testimoniato e raccontato come in un film didascalico-pedagogico di Rossellini o come in uno di quei documentari anni Cinquanta che nell’Italia in veloce trasformazione andavano a cogliere l’irruzione della modernità tecnologica in ambienti preindustriali (diciamo Olmi e altri). Dunque grande attenzione a scavi, lavoro di ruspa, messa in opera di tubazioni, costruzione degli allogggiamenti, e attenzione quasi etnologica alle relazioni (di reciproca diffidenza) tra gli operai tedeschi, dunque del paese euopeo egemone, e la piccola comunità locale. Son scontri, anzi è guerra di frizione su cose minime ma altamente simboliche e sensibili. Basta un maldestro e anche arrogante tentativo di corteggiamento di una ragazza per scatenare lo scontro. Quando poi l’acqua del villaggio viene deviata sul cantiere, la rabbia e il risentimento da parte dei locali verso gli intrusi arriva al punto di esplosione. La diffidenza è ai massimi, l’odio per l’altro viaggia su tutte e due le direzioni, l’unico a fare da elastico se non da collante tra i due gruppi è il tedesco Meinhard, roccioso ex legionario con alle spalle guerre in Afghanistan, Irak, Africa, uno che il mondo lo conosce, e sa come la violenza può scoppiare e farsi devastante. È lui a muoversi lungo l’invisibile confine tra i due mondi, rischiando parecchio, da una parte e dall’altra. Soprattutto quando va a toccare certi interessi mafiosi locali che hanno le mani su tutto, compreso il traffico dei rifugiati clandestini della intasatissima rotta balcanica. Il senso di minaccia cresce, la regista osserva impassibile l’intolleranza che monta, e con uno sguardo etologico ci mostra come due gruppi capitanati da maschi alfa che si muovono sullo stesso territorio sono destinati a collidere e creare disastri se non sono in grado di stabilire una tregua. Cinema che si fa studio etnografico, che si concede i ritmi dello slow life, e non in ottemperanza alle mode hipster-fighette, ma semplicemente perché quello è il tempo immobile di una comunità incapsulata e ripiegata su di sé. Con un finale che non è quello che sembrava annunciarsi, e che è da parte dell’autrice una rinuncia al rigore che l’aveva contraddistinta fino a quel momento. Ma è difficile, anche per il cinema più autoriale, evitare di questi tempi l’happy end o almeno un suo vago sapore. Succede del resto pure nel notevole, disturbantissimo svedese The Square che ha lasciato il segno su questo Cannes 70 (recensione in arrivo).

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