Happy End, un film di Michael Haneke. Con Isabelle Huppert, Mathieu Kassovitz, Jean-Louis Trintignant, Toby Jones, Fantine Harduin, Laura Verlinden. Concorso.
Massacrato da critici e critichini. Ma perché? Che sia il solito, oscuro impulso mimetico (vedi alla voce René Girard) che spinge a distruggere gli idoli dopo averli innalzati? Non sarà il miglior Haneke, ma resta un suo film, ovverossia il film di un maestro. Punto. Un ritratto di famiglia altoborghese del Nord della Francia di publiche virtù e molti vizi segreti. Con strane analogie con La caduta degli dei di Visconti, anche se là la temperatura era incandescente e qui glaciale. À la Haneke, appunto. Voto 8
Il grande favorito esce ridimensionato dalle due tremende (non per lui, ma per chi ha fatto ore e ore di coda per entrare) proiezioni stampa – l’apocalisse di Cannes 70. Improbabile che Michael Haneke, uno dei pochi veri maestri su piazza, agguanti la terza Palma d’oro della sua carriera cannense. Molti i sopraccigli inarcati, i commenti magari compunti e educati ma nella sostanza demolitivi. Non è più lui, è invecchiato, si ripete, ha trasformato il suo cinema in una macchina autoreplicante senza più guizzi, senza più autocorrezioni e innovazioni. E però dei veri autori come lui non esistono opere minori, opere mediocri e insignificanti, se mai opere sbagliate, grandiosamente sbagliate, o imperfette o inconcluse, categorie in cui si potrebbe far rientrare questo Happy End (titolo sardonicamente assai hanekiano, viste le devastazioni, in primis morali, cui il film ci fa assistere). Opere, quelle del signore austriaco della crudeltà mentale, sempre rivelatrici di un abisso, di una qualche verità celata. Ad aver deluso molta stampa è stata fors’anche una costruzione narrativa meno compatta del solito, non lineare, cubista, che procede per accumulo di frammenti apparentemente irrelati che solo più in là lo spettatore faticosissimamente riesce a connettere in un insieme. E poi, ampio ricorso ai nuovi linguaggi internettiane e social-mediatici, messaggi, video e chat di cui vediamo immagini e testi ma di cui ignoriamo autori e scriventi. Come nei video girati con smatphone collocati sui titoli di testa, che solo alla fine scopriremo essere fondamentali. Un ricorso alle forme, ai linguaggi, anche alle fascinazioni e alle retoriche new-tecnologiche che infastidiscono per il loro eccesso, come se il glorioso maestro volesse mostrare a se stesso e agli altri di saperli maneggiare, anche se – bisogna riconoscerlo – quei linguaggi si rivelano assai funzionali alla pratica dell’allusione, dell’ellisse, del non detto, della sottrazione, dell’astrazione così hanekiana. Più che mai questo Happy End, intendo più dei precedenti film del regista, si configura come un mind game, un rebus lanciato come una sfida allo spettatore. E comunque, più che mai, Haneke è Haneke, non perdendo niente della sua carica disturbante. Stavolta si avventura in un ritratto di famiglia infernale e in via di degenerazione, dove i molti peccati e i molti fallimenti sono accuratamente nascosti sotto la solita patina di impeccabile ipocrisia bourgeoise. Siamo nella Francia del Nord, tra Lille e il Pas de Calais, zona dove si son concentrati negli ultimi anni decine di migliaia di immigranti ammassati in terre di nessuno, in campi non organizzati in attesa di varcare con ogni mezzo la Manica e arrivare in Gran Bretagna. Zone peraltro che son state le sole nel ballottaggio presidenziale di qualche settimana fa a far prevalere Marine Le Pen su Macron.
Annunciato ante Cannes come un film (anche) politico sulla rigida divisione classista tra opulenta borghesia e la miseria degli arrivati da Africa, Medio e Lontano Oriente, Happy End non è niente di tutto questo. Il racconto è tutto interno alla famiglia protagonista, un microcosmo rigidamente chiuso e impermeabile, i migranti appaiono in un paio di scene e sono solo un elemento di contrasto onde far risaltare ulteriormente le contraddizioni e nefandezze in seno alla classe borghese. Niente di più. Meno che comparse. Reagenti drammaturgici, ecco. A me Happy End ha fortemente ricordato La caduta degli dei di Luchino Visconti, stessa deboscia, stesso cannibalismo tra i componenti e le diverse generazioni del clan parentale, stessa lotta mai dichiarata ma feroce per il potere interno, stessa insorabile decadenza economica con finale prevalenza di un esterno. C’è perfino una pulsione incestuosa appena accennata ma inequivocabile tra la madre – Isabelle Huppert, chi se no? – e il figlio deviante, alcolista, tossico, imbelle e chissà cos’altro ancora. E la memoria corre subito a Ingrid Thulin e Helmut Berger. Certo, siamo in campo stilisticamente e visivamente opposto a quello viscontiano. Se là il turgore del melodramma era la cifra dominante, qui si va per sottrazione, depotenziamento, prosciugamento. La perversione hanekiana è glaciale, quella viscontiana incandescente.
Si comincia a tavola, dove siedono il patriarca Georges Laurent (un Jean-Louis Trintignant di luciferino cinismo), la figlia Anne (Huppert), il fratello Thomas (Mathieu Kassovitz), il figlio degenere di Anne, Pierre (Franz Rogowki), Anaïs (Laura Verlinden), la seconda moglie di Thomas. I servi sono una coppia magrebina assai efficiente e di impeccabili modi antichi. Apprendiamo che il potere sociale e economico della famiglia si basa sulla loro azienda di costruzione di, chiamiamole così, grandi opere. Ma il crollo in un cantiere innesca conseguenze finanziarie e legali che rischiano di mettere in ginocchio l’attività, mentre discretamente si tratta con alcune banche britanniche per ottenere finanziamenti. Ma sono i caratteri individuali a segnare il film: arriva ad abitare nella grande villa la figlia di primo letto di Thomas, una tredicenne bella e inquietante, dopo il suicidio della madre (ma le cose si riveleranno più complicate e perverse). L’inserimento nella grande famiglia non sarà facile, e non sarà facile per lei trovare la giusta distanza o vicinanza verso la seconda moglie del padre e il loro bambino poco più che neonato. Pierre, il figlio di Anne destinato a ereditare l’azienda ma riluttante, è il ribelle, il provocatore, ricordando certi figli degeneri e anarcoidi, e perfini psicopatici, del cinema italiano anni Sessanta, per dire il Lou Castel di I pugni in tasca e di Grazie zia. Alcuni video sui social (Facebook? Periscope? Altro?) ci mostrano all’inizio una donna non identificabile e piccoli atti di crudeltà. Di chi sono? Una chat, di cui anche qui Haneke ci mostra i testi ma non chi li sta scrivendo, ci dice di una storia clandestina e sessualmente estrema. Haneke si autocita abbondamentemente, soprattutto da Il nastro bianco e da Amour, con Jean-Louis Trintignant che quasi replica il proprio personaggio, stabilendo un inquietante collegamento tra questo film e il precedente Palma d’oro. Solo che quanto là poteva sembrare gesto d’amore, amour, qui è solo consapevolezza dell’irrimediabilità del male e satanica volontà di controllo (su di sé, sugli altri, sul proprio e loro destino). Poco ci viene detto, tutto avviene, come dice il mio amico Marco A., fuori campo, tutt’al più ne vediamo le conseguenze. Devastanti. E il profumo marcio dei fiori del male a impregnare tutto. Consueta messinscena translucida di Haneke che con la macchina da presa disincarna i corpi, li rende angelici e insieme demoniaci. Personaggi che sono ricettacoli del Male o delle deboli forze che cercano di resistergli e forse ne sono inconsapevoli complici. Manca l’idea narrativa folgorante di altri film del grande viennese, l’affresco di famiglia risulta meno incisivo, e stavolta il sospetto che Haneke sia entrato nella stagione del selfie autocitazionista e del manierismo è forte. In certi momenti Happy End sembra più un film à la Haneke che di Haneke, come se una qualche mano misteriosa avese attivato il famoso generatore automatico di storie alla maniera di. Poi però guardi e ascolti l’agghiacciante dialogo tra il nonno Trintignant e la nipote tredicenne e ogni dubbio, ogni tua riserva viene spazzata via.
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