The Killing of A Sacred Deer, un film di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Cassidy, Alicia Silverstone. Concorso.
Da Palma d’oro, anche se è difficile che la vinca (e però sperare sempre). Perché L’uccisione di un cervo sacro è di quei film che dividono, anzi spaccano (non nel senso giovanilista-rappettaro del termine). La famiglia perfetta di un cardiochirurgo di massimo successo verrà sconvolta dall’irruziome di un adolescente torvo e minaccioso. Chi è Martin? E qual è il suo obiettivo? Lanthimos riscrive la tragedia greca e la importa nella nostra contemporaneità, e lo fa con la glacialità di sempre. Niente è cambiato da Euripide, semplicemente abbiamo rimosso l’abisso. Capolavoro, nonostante i molti haters che qui a Cannes si sono scatenati. Voto 8 e mezzo
Mia personale palma d’oro (a oggi). Il film più potente e arrischiato, anche il più controverso, il più divisivo, il più spiazzante. Il meno convenzionale nello scegliere l’oggetto del proprio racconto e nel come lo racconta. Peraltro, in assoluta coerenza e continuità con i precedenti del suo regista, Yorgos Lanthimos (e del suo sceneggiatore di sempre Efthimis Filippou), greco ormai operante sul mercato inglese dopo che il successo (inatteso) di The Lobster gli ha spalancato parecchie porte. Anche finanziarie. Lanthimos realizza un film di star e di molti mezzi, rispetto ai low budget e poverismi di massima austerità (che diventavano stile e impronta estetica) di Dogtooth e Alpis, ma non smarrisce se stesso. E pure questo è il segno di un autore vero: l’opulenza dei mezzi non è impedimento alla libertà espressiva ma si fa anzi mezzo di potenziamento della propria visione di cinema, la chance di andare più in là, di esplorare. C’è da chiedersi come un simile regista sia tanto detestato, soprattutto dalla critica italiana, istituzionale e giovane, di carta e di web, e perché siano soprattutto i recensori anglofoni a cogliere stranamente la profondità, le sottigliezze e la peculiarità di un cinema così profondamente figlio dell’Europa. Probabilmente è la crudeltà mentale del Lanthimos autore, la sua assenza di ogni sentimentalismo e approccio caldo al mondo, a infastidire, a risultare intollerabile. Il rifiuto di Lanthimos di molti opinionisti di questo Cannes (mi dicono che Screen International, che non consulto per non farmi influenzare e anche per non arrabbiarmi per certi giudizi, l’ha relegato agli ultimi posti) è perfettamente sovrapponibile a quello scattato per Haneke e il suo Happy End. Un critico non italiano – e scusate se non ricordo quale – li ha accostati definendoli (cito a memoria) ‘i nostri sadici preferiti’. Ecco, è quella glaciale oggettività scevra da ogni illusione, quella Neue Sachligkeit approdata nell’Ellade e depurata di ogni empatia per un mondo e per esseri umani sprofondati nella disumanità, a provocare il rigetto in un paese come il nostro che per cultura antica e per tratto antropologico non sopporta il disincanto, lo sgurdo lucido sul reale. Come volete che si apprezzino Lanthimos e le sue torve escursioni nelle zone d’ombra, i suoi tenebrosi apologhi su una modernità che altro non è che il travestimento dell’antichità barbarica, in un fare giornalismo e critica che il male e il sangue li hanno relegati nel cinema di genere? Già dal titolo, che rimanda a un rito sacrificale (e non è necessario aver letto il pur fondamentale e irrinunciabile René Girard per capirlo), si intuisce il disegno di Lanthimos. Che prende corpo e vita sotto i nostri occhi in perfetta coerenza con quel, peraltro bellissimo, titolo.
Siamo negli Stati Uniti, nei suburbia opulenti di una città che può essere tutte le città, in una casa di massimo benessere. Chi ci abita con la famiglia – moglie e due figli, una femmina e un maschio – è quel cardiochirurgo (nome Steven Murphy) che nella scena d’apertura interviene su cuore e dintorni di un paziente. Con squarcio toracico e organi pulsanti e sanguinolenti in bella vista e sparati a tutto schermo, a dichiarare subito le intenzioni, e la strategia narrativa e visuale, di Lanthimos, e a far gridare di orrore le brave ragazze sedute in platea stampa (e dovranno coprirsi gli occhi più e più volte in corso di proiezione). Quegli slittamenti nel surreal-patologico quotidiano che sono la cifra della ditta Lanthimos-Filippou – i riti malati della famiglia reclusa di Dogtooth, gli impersonator di defunti in Alpis – si manifestano subito anche qui, nello strano sesso coniugale di Steven con la moglie Anna, il gioco dell’anestesia lo chiamano, lei che si sdraia nuda inerte e lui che si masturba guardando quel corpo come morto. Provocazioni, turpitudini gratuite per chi non conosce Lanthimos, eppure è (anche) questo senso del sordido a fare di lui un autore unico e così riconoscibile, a farne l’esploratore dei mostri che abitano la normalità. Ma perché un adolescente di nome Martin segue il dottor Murphy? Perché se lo è fatto amico e si è insinuato nella sua vita, e in quella di sua moglie e dei suoi figli? Si spaccia per un ammiratore del chirurgo di successo, è in realtà un nemico, l’ospite ostile, il distruttore, l’angelo sterminatore. Martin è portatore di una minaccia che destabilizzerà vita e carriera di Martin, e la sua perfetta famiglia. Succede che prima il figlio piccolo, poi la ragazzina, perdano misteriosamente l’uso delle gambe. E per salvarsi dalla distruzione totale dovrà essere compiuto un sacrificio, si dovrà immolare una vittima rituale. Lanthimos dissemina il suo film di molti ed evidenti segnali, cita l’Ifigenia in Aulide di Euripide, dicendoci che quanto sta mettendo in scena altro non è che la tragedia classica, quella che affascinò Nietzsche e continua a lavorare nell’inconscio dell’Occidente, la tragedia che non è mai scomparsa dai nostri orizzonti, se mai è stata dissimulata, rimossa. The Killing of A Sacred Deer è Euripide oggi, semplicemente e intollerabilmente. Non siamo al riparo dalle pulsioni omicide, siamo a rischio costante di precipitare nel caos, e solo un sacrificio può riportare l’ordine (ancora Girard!). Tutto è inesorabile in questo film di Lanthimos, perché gli umani non possono sottrarsi al destino, e Martin non è un ragazzo disturbato, è lo strumento del fato, forse un inviato degli dei perché si ripristini l’equilibrio dopo una colpa commessa. Colpa che va risarcita con il sangue. A stupire se mai è la sontuosità registica di cui dà prova Lanthimos, se solo si pensa ai suoi primi, poveristici film. Qui la macchina da presa si muove vertiginosamente tra canyon urbani, lunghi corridoi, ampi spazi aperti (sarà per questo che tutti, anche molti stranieri, citano a mio parere a sproposito Stanley Kubrick? Ma che c’entra Kubrick con Lanthimos?), e la perizia della messinscena è sbalorditiva. Si pensi alla scena del malore del figlio ripresa dall’alto. Aggiungete un uso della musica come pieno elemento drammaturgico, con il fracasso di un treno che diventa il leitmotiv delle scene più allarmanti. Come tutti quelli che molto osano, anche Lanthimos sfiora il ridicolo e l’imbarazzante. Ma importa il risultato, che è di una potenza inaudita e squassante per il pallido cinema di oggi, e per il mondo anestetizzato in cui viviamo. Lanthimos osa dirci che non siamo al sicuro, non dalle minacce esterne, ma da quello che sta in noi, e che ogni colpa, o peccato, va pagata. Come volete che possano piacere uno così, un film così, nel tempo del narcisismo di massa e della prevalenza dell’Io e della sofferenza narcotizzata?
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