Festival di Cannes 2017. Recensione: KROTKAYA (Une femme douce) di Sergei Loznitsa. Un potenziale capolavoro distrutto dall’ultima, terribile mezz’ora

Krotkaya di Sergei Loznitsa. Con Vasilina Makovtseva, Marina Kleshcheva, Valeriu Andriuta. Concorso.
0d803068bbb8a3dc6ce5aeb4155c3fafIspirato vagamente a La mite di Dostojevsky, il film dell’ucraino Sergei Loznitsa era sulla carta uno dei favoriti. E invece delusione. Una donna attraversa una Russia devastata e desolata, posseduta dai suoi demoni eterni, per raggiungere il marito detenuto. Sarà un viaggio all’inferno. Cinema etico e potente, fors’anche necessario. Peccato che Loznitsa a parti grandiose alterni altre meno risolte. E l’ultima mezz’ora è semplicemente terribile e rischia di affondare l’intero film. Che comunque è di quelli che vanno rivisti. Voto 6 mezzo

Sulla carta era il mio preferito del concorso, e il mio favorito per la Palma. Perché considero l’ucraino Segei Loznitsa uno dei più grandi in circolazione, autore di una cinema rifessivo, cinema di pensiero, severo, potente, lontano da ogni piacionismo e commercio con il mercato e i generi più corrivi. Un autore di assoluta integrità, limpido, incorrotto come certi grandi di un tempo, per dire Robert Bresson. Cui lo accomuna almeno la tensione etica, la visione del cinema come strumento di indagine sull’uomo, le sue colpe, le sue dannazioni, le sue necessarie espiazioni. Cinema, anche, di evocazione del sacro e del divino. Mi aveva folgorato qualche anno qui a Cannes, mi pare fosse il 2012, l’anno di Amour di Haneke, il suo In the Fog (V Tumane), il calvario di un pover’uomo che nell’Ucraina occupata dai nazisti, e pullulante di collaborazionisti, resta incastrato e vittima non solo dei tedeschi ma anche dei resistenti. Messa in scena di un martirio che trasformava un pezzo di storia in amarissima parabola. Un film anche religioso, che rivelava un autore anomalo, lontano da quano si agitava nel cinema d’Europa e America. No se lo filò nessuno, In the Fog, non entrò nel palmarès, fu stroncato dalle riviste più cinefile, non uscì mai in Italia. Seguirono per Loznitsa alcuni documentari, Maidan sulla piazza simbolo del rivolta di Kiev, The Event, visto a Venezia, sulla San Pietroburgo che scese in piazza per fermare i carri armati del golpe antiEltsin, fino a quel capolavoro – proiettato all’ultimo Venezia Festival e chissà perché non in concorso – che è ‘Austerlitz. Dove Loznitsa osserva con occhio fermo (in ogni senso) l’orda di turisti in visita a un campo di sterminio nazista. Ecco, con questi precedenti mi aspettavo da lui il miglior film di Cannes 70. Non è andata così. Sono rimasto così deluso da dargli subito come voto un 5. Salvo poi, con il passare delle ore, e dei giorni, addivenire a un giudizio più meditato. Di cui cercherò di rendere conto adesso.
Devo dire che a irritarmi è stata l’ultima mezz’ora, talmente sballata, goffa e pretenziosa da rovinare anche il molto di buono che viene prima. Una balorda sequenza di onirismi e surrealismi e simbolismi grevi e spessi come si usava in certo cinema est europeo degli anni Sessanta e Settanta che guardava a Fellini come al Dio del cinema e ne mutuava i peggio vezzi e manierismi (Kusturica, per dire, non se ‘è ancora liberato). Ma procediamo con ordine. Ispirato alla lontana al racconto La mite di Fiodor Dostojevsky, Krotkaya è il ritratto di una donna nella Russia contemporanea, o di un ieri non lontano, forse nell’era di Eltsin, forse in quella del primo Putin. Un’indeterminatezza che accentua l’ambizione del film a farsi parabola universale e atemporale. Eterna. Aggettivo non così fuori luogo per un autore per sua natura titanico come Loznitsa. Un’ancora giovane donna si vede restituire un pacco mandato al marito in galera. Per capire cosa possa essergli sucesso intraprende un viaggio verso la prigione-fortezza in cui è detenuto, o dovrebbe esserlo. Come spesso nelle narrazioni, il viaggio, più che la destinazione, a contare davvero. Incomincia un attraversamento di lande desolatissime della Russia, occasione per Loznitsa di allineare ritratti umani, e ambienti e situazioni, che stanno a segnalare ognuno un pezzo di Russia disperata (così almeno emerge dal film), del suo degrado, della dismissione e rottamazione di ogni freno etico, Con la nostalgia per la grandeur sovietica e stalinista, con la sopraffazione di apparati burocratici e militari sui cittadini regrediti a una condizione di semischiavi privi di diritti. Non c’è legge, né ordine, il potere è nelle mani di élite corrotte e colluse con le nuove reti criminali. Una devastazione che lascia sgomenti e induce a chiedersi se tutto questo sia l’eredità marcia di 70 anni di comunismo, o al contrario se il comunismo – il neo-zarismo staliniano e post staliniano – abbia tenuto sotto controllo con la repressione certi tratti antropologici nazionali come la pulsione al caos e alla violenza. Questa prima parte del film è agghiacciante al punto giusto. Fortemente didascalica, come ha da essere un’opera che intende farsi denuncia morale. Dietro a uno stile apparentemente realistico, in realtà c’è una maniacale, minuziosa costruzione di ogni scena, una sceneggiatura fortemente letteraria e teatrale. Tutto in questo film è voluto artificio, niente è cinema del reale. Momenti: i nostalgici di Stalin che in treno di notte cantano i vecchi inni di regime, l’arrivo nella città-prigione, le file agli sportelli dove tutti sono regolarmente respinti e vessati. Prostitute dappertutto, arricchiti protervi, maschi alcolisti e intruppati in una qualche banda criminale. Polizia collusa con ceffi neonazisti. E lei, la femme douce, la mite, cui Loznitsa non attribuisce un nome, attraversa passiva, come un automa, l’inferno passando da un girone all’altro. Testimone del degrado e martire, e forse simbolo della stessa Russia. Cercando di avvicinarsi a quel marito-fantasma che non sa più nemmeno dove sia. Condannato per omicidio, ma probabilmente innocente. L’intento di Loznitsa è mi pare evdente, non solo tracciare un affresco della Russia attuale, delle sue sopraffazioni e delle sue lesioni strutturali, ma sondare l’anima russa, resituirne le costanti, l’essenza, l’eternità, quei caratteri che riemergono e mai scpmpaiono, tutt’al più si nascondono e si inabissano. Forse solo chi ha vissuto un pezzo della sua vita nella ex Unione Sovietica, e ha alle spalle la letteratura classica russa, può oggi produrre un cinema etico come questo, che si interroga sul Bene e il Male, sulla colpa e l’eventuale redenzione. Un cinema fortemente impregnato del senso del tragico. Massimo rispetto per Sergei Loznitsa, anche se questo suo Une femme douce (uso il titolo francese, che è poi anche quello del lontano film di Robert Bresson con Dominique Sanda tratto dallo stesso racconto di Dostojevsky cui Loznitsa ha guardato), delude in più parti, e per più motivi. L’ecessiva programmaticità, un film a messaggio così rigidamente strutturato da non lasciare spazio aall’irruzione dell’imprevisto. Un passo lento espasperante, da oeera che dichiara smaccatamente la propria alta autorialità. E la mezz’ora finale, davvero un terribile delirio: della protagonista, ma anche un deragliamento inspiegabile di Loznitsa. Ma questo è uno quei film che, se ti fanno arrabbiare alla prima visione, poi ti crescono dentro, e che bisogna rivedere, e con cui bisogna rifare i conti.

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