The Square, un film di Ruben Östlund. Con Claes Bang, Elisabeth Moss, Dominic West, Terry Notary, Christopher Laessø, Marina Schiptjenko, Elijandro Edouard, Daniel Hallberg, Martin Söder. Competizione.
Curator di un museo di arte contemporanea di Stoccolma, Christian è come usa dire un uomo di successo, un bell’uomo riuscito. Ma il furto del suo telefono innescherà una serie di effetti a catena che devasteranno il suo mondo interiore ed esterno. Un film sull’irruzione dell’imprevisto e del caos, come il precedente di Ruben Östlund, Force majeure. Peccato sia troppo lungo e, nella prima parte, assai ondivago e indeciso. Ma quando decolla The Square diventa qualcosa di importante. Finora la più grande sorpresa del concorso. Voto 7 e mezzo
Il film più divisivo tra quelli visti finora. Con uno zoccolo durissimo di entusiasti che lo vorrebbero palma subito, una terra di mezzo di tiepidi o indifferenti e un’ala opposta di indignati. Comunque un gran botto che ha lasciato il segno dello svedese Ruben Östlund, che due anni fa con Force Majeure aveva vinto un premio a Un Certain Regard, rastrellando poi onori in una miriade di altri festival maggiori e minori. Qui Östlund appronta un’opera ambiziosissima e formato gigante, radicalizzando il nucleo di Force Majeure, l’irruzione dell’imprevisto nell’ordinata vita borghese (e nordeuropea), la prevalenza del caos, dell’ignoto, della distruzione. La valanga che in quel film, sfiorando una bionda e bella famiglia svedese in un rifugio alpino, causava per un effetto domino la fine di un equilibrio, qui si moltiplica, si dissemina ovunque, diventa una specie di sciame sismico che intacca e attacca la vita di un signore assai agiato, assai piacente, curatore di un museo di arte contemporanea nell’affluente e civile, troppo civile Stoccolma. Östlund adotta pevalentemente il registro della commedia demenzial-surreale tendente al dark, tant’è che per un’ora e più (anche per via di certe assonanze, come la scena del preservativo) si pensa a Toni Erdmann, dal quale poi per fortuna si discosta avvicinandosi se mai al Buñuel di L’angelo sterminatore. Dunque, al museo di arte contemporanea si sta per inaugurara l’opera concettuale di un’artista argentina, The Square, un quadrato luminoso perfetto ritagliato sul selciato antistante il museo e dichiarato territorio libero, mondo a parte, spazio al cui interno “tutti possono chiedere aiuto e essere solidali” (cito a memoria). Dichiarazione-provocazione (blanda) contro il cinismo ecc. ecc. Quello che il film dipana per due lunghissime ore e venti minuti è però una clamorosa smentita di quell’assunto tanto virtuoso. Film cerebrale come pochi, che, nell’apparente svagatezza e anche approssimazione anarcoide, persegue invece un obiettivo, e un tesi. Solo che l’architettura di The Square la si percepisce con fatica molto più in là, sicché lo spettatore vagola per buona parte del racconto spiazzato tra una brillante trovata e l’altra in cerca di un senso, o semplicemente di un film, un film purchessia. Al piacionissimo curator Christian rubano il portafogli e il telefono in una truffa che, senza offesa, si potrebbe dire alla napoletana, una sceneggiata organizzata da alcuni malandrini forse rom (gli zingari, si potrà ancora dire?, sono presenza non secondaria nel panorama umano di The Square e stanno a significare, credo, i limiti del modello svedese di integrazione, la segmentazione in caste, l’irriducibilità all’ordine, alla forma perfetta del quadrato). Il tentativo di Christian di recuperare il telefono – distribuendo in una palazzone mal abitato di periferia disagiata dove si presume si nascondino i rei una lettera di minaccia del tipo “se non mi restituisci quanto mi hai rubato ti faccio passare dei guai” – spinge il grand’uomo di gran successo in zone perigliose, dando il via alla destrutturazione del suo mondo, della sua vita. C’è un crollo progressivo, in quel che sta intorno al curator e dentro di lui, come se l’antienergia, l’entropia, lo avesse invaso. Il tutto girato in chiave di grottesco o di satira assai abrasiva, ricordando, anche per la catastrofe che si verifica a partire da banali fatterelli e quisquilie, il bellissimo Racconti selvaggi dell’argentino Damián Szifron lanciato proprio qui a Cannes qualche anno fa.
Ne vediano di ogni in The Square: un video (finto) con una bambina che salta su una bomba; una rom che non solo fa la questua ma fa richieste circostanziate sul cibo che vorrebbe le comprassero; una giornalista americana con cui Christian ha una notte che post coitum vuole impossessarsi del preservativo usato da lui; gorilla che entrano in salotto mentre si fanno le più colte e amabili conversazioni. Rende l’idea di cosa sia questo matto matto matto film? Ma è il crescendo finale a dargli qualità, altrimenti si resterebbe sul piano della buffoneria alla Toni Erdmann o alla solita sequenza finto-shock da teatrino dell’assurdo. L’irruzione dell’uomo-bestione nella cena-charity di gala che parte come una performance e finisce in scatenamento vero di pulsioni selvagge e primitive fino a quel momento nascoste sotto i modi borghesi, è una scena potente, l’architrave del film, e quella che illumina tutti i suoi passaggi, le scene precedenti come quelle a seguire. E quel confronto di Christian con il bambino venuto a reclamare la restituzione del suo onore dopo essere stato accusato dalla famigerata lettera di essere un ladro di portafogli e telefoni è da brividi. Per come come consente a Östlund di portare a galla le differenze sociali nell’affluente Svezia e, ebbene sì, il latente conflitto di classe. Per come quel bambino rischia di diventare la vittima sacrificale di un mondo che ne ha forse bisogno per ricompattarsi e ritrovare il suo ordine (vedere René Girard). Purtroppo non tutto The Square ha una simile potenza, una simile necessità: soprattutto nella prima parte si perde in sentieri collaterali e inessenziali, compiacendosi della propria superficiale buffoneria. Se solo Östlund avesse limato e asciugato, ne sarebbe venuto fuori qualcosa di ancora più importante. Il protagonista Claes Bang è sempre in scena, ed è così bravo e convincente, e svelto nel passare dal registro ironico a quello drammatico, da candidarsi seriamente al premio di migliore attore.
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