Il mistero di Oberwald di Michelangelo Antonioni, Rai 3 (Fuori orario), ore 1,05. Domenica 30 luglio 2017.
Son dieci anni giusti dalla morte di Michelangelo Antonioni (era il 30 luglio 2017) ed è impossibile dimenticarlo, impossibile dimenticare il suo cinema e farne a meno. E Antonioni intanto si è issato al grado più alto come il nostro cineasta più influente di sempre, capace ancora oggi, anzi oggi più che mai, di ipnotizzare e ispirare decine, centinaia di registi di nuova e nuovissima generazione (lo cita e lo riconosce come proprio punto di riferimento in una recente intervista, per dire, Andrea Pallaoro, italiano operante perlopiù negli Stati Uniti che sarà in concorso a Venezia con Hannah). Fuori orario lo celebra con questo malcompreso, forse il suo film più trascurato e pure sbeffeggiato, Il mistero di Oberwald, cui fa seguire Identificazione di una donna, e sono occasioni da non perdere (andare di registrazioni con ogni possibile mezzo e controllare se per caso Rai Play li renda disponibili, onde evitare la visione da nottambuli, anzi zombi cinefili).
Il mistero di Oberwald, allora. Uno degli esperimenti tecnologici di Antonioni, che non era mai stanco di provare, esplorare, oltrepassare. E se con il suo docu sulla Cina aveva tentato l’alta risoluzione, qui gira in elettronica-video, secondo tecnica televisiva, riversando poi il tutto su pellicola. Andando a scoprire soprattutto nuove possibilità del colore, secondo una vocazione-ossessione che era cominciata con le strade e i muri ridipinti di Deserto rosso e Blow-up. Ma la vera stravaganza di questa impresa è che il maestro della cosiddetta alienazione, del cinema austero e rarefatto e spesso di pura immagine che sappiamo, si sia prodotto nel remake di una pièce (poi diventata anche film) di strabordante melodrammaticità come L’aquila a due teste di Jean Cocteau. Assolutamente nostalgica e antimoderna, ostentatamente ottocentesca e stilisticamente ancien régime, dunque all’opposto della sensibilità antonioniana così sintonizzata sui nudi razionalismi visuali, concettuali e pure a-emozionali della modernità e dei vari modernismi. Ed è questa collisione tra due mondi così lontani, Antonioni e Cocteau, la prima ragione per non perdersi Il mistero di Oberwald. Un’altra è il ritorno di Monica Vitti (siamo nel 1981), dopo anni e anni di commedie e di enorme successo popolare, dal suo scopritore e mentore, colui che l’aveva resa icona globale (Vitti ancora oggi è universalmente amata per L’avventura, per Deserto rosso, per La notte, non certo per le sue commedie che nessuno fuori dai confini nazionali conosce).
Storia folle e anche ultracamp quella che Antonioni riprende, con non poche libertà, da Cocteau. La regina di un immaginario regno centro europeo in preda a convulsioni politiche (ogni allusione all’Austro-Ungheria è, immagino, voluta), un po’ Ruritania e molto Kakania, si è ritirata in un suo castello dopo l’uccisione per mano anarchica del marito sovrano. E se la sua figura pare sia ispirata a Elisabetta-Sissi, lui incredibilmente sarebbe stato modellato su Ludwig di Baviera. Succede che un altro giovane attentatore si infiltri nel castello con lo scopo di far fuori anche la vedova, solo che i due vengono colti, anzi folgorati da reciproca passione e attrazione. Si possono immaginare i complicati sviluppi di una relazione tanto ambigua, mentre un potente ministro tesse le sue trame paragolpistiche. Il film di Cocteau era assolutamente meraviglioso, un tripudio camp, e meravigliosissimi erano i suoi interpreti Jean Marais (in braghette corte tirolesi!) e la davvero regale Edwige Feullière. Antonioni naturalmente frena ogni pompierismo à la Cocteau, ogni sfrenatezza mélo, approntando una messinscena di pura forma e visione in cui i personaggi scorrono come sagome di un teatro d’ombre, o officianti di una cerimonia laica. Eppure la visualità antonioniana unita al kitsch alto di Cocteau sprigiona un fascino cui non si può non soggiacere. Allora i ragazzacci della jeune critique lo fecero a pezzi, adesso Il mistero di Oberwald ci appare un tassello irrinunciabile dell’opera del nostro maggiore autore di cinema (direi insieme a Rossellini). Ricordo gli sghignazzi per la pronuncia romanocentrica di Monica Vitti, improbabile regina di Oberwald. Oggi c’è la distanza giusta per non farsi fuorviare da simili irrilevanti dettagli e andare dritti al cuore dell’antonionità di questo film rimosso. Franco Branciaroli è il giovane attentatore-amante, Paolo Bonacelli l’intrigante cortigiano.
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