Locarno 70. Recensione: LOLA PATER. E papà Farid cambia sesso e diventa mamma Lola, cioè Fanny Ardant

962073962074Lola Pater, di Nadir Moknèche. Con Fanny Ardant, Tewfik Jallab, Nadia Kaci. Piazza Grande.
962065Zineddine detto Zino dopo la morte di mamma va in cerca del padre scomparso nelle nebbie. Scoprirà che il genitore ha cambiato sesso trasformandosi in un’imperiosa mora in tacchi alti (Fanny Ardant, difatti). Film che non ce la fa mai da andare oltre la sua pur brillante idea di partenza e che perde l’occasione di dirci qualcosa di vero e serio e importante su gender culture e mondo arabo-musulmano. Voto 4 e mezzo

962070Se vi è capitato almeno una volta nella vita di avere malpensato, magari pure vergognandovi: però Fanny Ardant sembra proprio una drag queen, eccovi confermati nella vostra (perfida) opinione. Ecco un film francese di un regista suppongo di radici algerine che prende proprio lei, la signora della porta accanto con tutto il suo carico cinematografico di fiammeggianti mélo truffautiani, e le fa interpretare un padre (algerino) di nome Farid diventato, non si sa dove non si sa quando, donna autochiamatasi Lola (sì, lo so che il dragqueenismo non è esattamente lo stesso, ma per favore non fate i sofistichi, grazie). Il solito sex change, che ormai tra cronache vere e finzioni cineletterarie ne siamo strapieni. E però mai si era vista la gender culture, ‘l’identità di genere è mia e me la scelgo io’, immessa in un microcosmo di matrice musulmana. Che poi Fanny Ardant sia credibile quale trans, e quale trans arabo, questa è tutt’altra storia. Certo che quella sua femminilità prepotente, quella statura dominante ulteriormente potenziata da tacco 14, quella imperiosità da femmina assoluta qualche affinità l’ha sempre avuta, e ce l’ha, con il modello di donna costruito dai fantasmi mentali gay, lgbt, lgbtqi, queer, insoma chiamateli come volete.
Lola Pater ha una  storia semplice semplice, che non ce la fa mai ad andare oltre la sua pur brillante idea di partenza, al suo innesco narrativo. Parigi, oggi. Un ragazzone di nome Zino (sta per Zineddine, come Zidane) perde improvvisamente, e con immenso dolore, l’adorata madre. Bisogna, come sempre in tali casi, sistemare le faccende notarili di eredità, ma occorre che Zino ritrovi il padre perduto nelle nebbie un’infinità di anni prima e abbia il suo consenso. Ci vuole la sua firma!, direbbero le vecchie zie. Ha un indirizzo, ha il suo nome, Farid Chahib. Parte (in moto: è un ragazzo moderno), arriva a destinazione, lo riceve una signora sontuosa insegnante di danza orientale (quella che chiamiamo impropriamente danza del ventre) a un gruppo di smandrappate del paesucolo in cui abita: signora che dice di chiamarsi Lola e di non conoscere il Farid precedente inquilino. Naturalmente, avendo letto la sinossi, sappiamo già quel che bisogna sapere, e cioè che il babbo è lui trasmutatosi di sesso e di apparenze, solo che Farid-Lola non se la sente di dirlo al figliolo, di dargli lo shock. Nel seguire della storia non succede granché più di questo. E quel poco è assai telefonato. Il figlio, parigino sì ma sempre imbevuto di certa cultura macho-araba, quando viene a sapere si dispera: no e poi no, un babbo-mamma trans mai! Poi interviene la saggia zia, sorella della defunta mamma, a far da mediatrice, e insomma provate a indovinare cone va a finire. Bravi, ci avete azzeccato.
Ora, Lola Pater (si apprende in corso di film che in Algeria si usa la parola latina pater per dire padre, e mi piacerebbe saperne di più: è una delle poche cose del film che abbiano suscitato la mia curiosità) resta al minimo sindacale, senza mai indagare giudizi e pregiudizi, e traumi, e scontri di culture e civiltà. Tutto, come in un teorema dimostrativo sul bello della gender culture, fila via liscio salvo qualche minima increspatura. Una favola che è più una proiezione dell’ideologia genderless che un referto di realtà. Peccato. Si sarebbe voluto di più, capire di più su come un padre algerino, sposato a una donna bella e intelligente e con figlio a carico, molli tutto per ‘non sentirmi più prigioniero di un corpo non mio’ (ancora! se risento ‘ sta storia della gabbia do fuori di testa). Ma almeno ditemi cosa significhi essere musulmano e aspirante trans, ditemi le complicazioni. Qui invece tutto è appena accennato, tenuto cautamente sullo sfondo, stemperato, quasi rimosso. E qualcosa in più ditecelo su come lui diventato lei poi diventi lesbica e si metta con una donna (anche lei di cultura araba). Tutto sprofonda nell’ovvio e nella noia, mentre Fanny Ardant gigioneggia e approfitta dell’occasione per dragqueeneggiare alla grandissima, sempre con bicchiere, anzi bottiglia superalcolica in mano. Si salvano piccole cose, come il bambino già aspirante donna che si traveste da danzatrice di flamenco e balla al ritmo di una meravigliosa canzone fintoandalusa e vero-algerina (vogliamo sapere di più del pop arabo anni Cinquanta e Sessanta! Se solo Lola Pater avesse imboccato, alla Almodovar, questa strada furiosamente pop-camp, e invece macché: d’altra parte di Almodovar ce n’è uno solo). Il resto è niente. Aspettiano un film come si deve su mondo arabo, Islam e gender culture, mica ‘sta robuccia senza spigoli.

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