9 Doigts (9 dita) di F.J. Ossang. Con Paul Lamy, Gaspard Ulliel, Pascal Greggory, Damien Bonnard, Lisa Hartmann. Concorso Internazionale.
9 dita è di quei rari film che osano l’inosabile, muovendosi rischiosamente tra sublime e kitsch. Racconto di uomini duri alla deriva su un cargo fantasma, diretti verso il Grande Niente. Un film che parte come un noir e si fa via via metafisico. Con disquisizioni alto-filosofiche sul Destino, la Vita, l’Oltrevita. Prendere o lasciare. Ma il cinema concettual-muscolare di F.J. Ossang, piaccia o meno, è davvero unico. Voto 7+
E se 9 dita fosse la rivelazione del Concorso? E se nonostante l’accoglienza malmostosa al press screening diventasse un culto? E se vincesse il Pardo? Ma anche: se fosse la più colossale sòla vista finora a Locarno? Se fosse il film più pretenzioso e sentenzioso? E se diventasse non un culto ma un guilty pleasure, che del culto è la degradazionr? Tutto potrebbe essere: tutto e il suo contrario. Perché 9 dita è insieme sublime e kitsch, cinema alto, ma talmente temerario nel suo lanciarsi a quote impossibili (quelle, per capirci, dei cieli della filosofia e della letteratura) da rischiare lo schianto. Sono stato per almeno mezza giornata a chiedermi dove mai collocarlo nella mia classifica di questo Locarno. Adesso ho deciso: nelle prime posizioni. Perché dopo tanti film anche buoni, ma sempre e volutamente dimessi, 9 dita non si nasconde, osa, grida, è grandioso e magniloquente, è terribilmente francese nella sua autostima e ambizione. Bianco e nero autorialistico, e fortemente contrastato e drammatico, tutto un espressionismo citato e ritrovato, e atmosfere cuperrime da noir concettuale con tendenza all’astrazione. Con uomini rudi di crimine e di rapina che si abbandonano a torve riflessione sulla morte, sui destini del mondo, mentre la Catastrofe incombe in forma di plutonio assai arricchito. Il tutto, il Nulla, anzi il Grande Nulla che ci aspetta e ci inghiottirà. Gente alla deriva in una mare sconosciuto senza mai staccarsi davvero da un’isola maledetta, e una costa all’orizzonte che si chiama (se ricordo bene, perché, sapete, io non prendo appunti durante la proiezione) Nowhereland, tanto per non lasciare niente all’alluso e al non detto.
E poi, chi è mai questo regista che di nome fa, meravigliosamente, F.J. Ossang? Andando sul sito del festival e rovistando su Internet scopro che è del 1956, quindi ha 61 anni, non proprio un’età da esordiente. Difatti non lo è, anche se, scusate, io non ne avevo mai sentito parlare prima di impattare 9 Doigts. Sono anni e anni che realizza cose assai personali, occupando una nicchia al di fuori dalle zone più frequentate del cinema francese, perseguendo con coerenza la sua visione di cinema. Con film già dati parecchi anni fa sia a Venezia che a Locarno. Stavolta realizza quello che all’inizio sembra un classico noir citazionista, con moltissime affinità, anche visive (ma non nell’uso ossessivo del piano sequenza), con lo straordinario L’uomo di Londra di Bela Tarr. Anche qui si comincia in una metafisica stazione ferroviaria di notte, tra treni misteriosi e inquietanti. E con il mare a due passi, un mare scuro, infernale. Un uomo scappa dalla polizia, corre verso la spiaggia, inciampa in un altro uomo, a terra, ferito, che sta per morire e gli consegna qualcosa di prezioso. C’è una banda criminale che lo insegue, lo cattura. Ma Magloire, questo il nome del fuggitivo ora prigioniero, accetta di entrare nella gang per non farsi ammazzare. E con loro si imbarca su un sinistro e rugginoso cargo dalla destinazione tenuta accuratamente nascosta. Qualcuno cade gravemente malato, tra i passeggeri serpeggia la paranoia. Siamo dalle parti, si sarà capito, del vascello fantasma, della nave dei folli, della zattera della medusa, di tutti i miti marinari più oscuri e minacciosi. Un ambiguo medico sale a bordo con altri uomini, ma anziché portare la salvezza aggiunge ulteriori indizi di pericolo, di morte. Mentre la navigazione continua in una circolarità ossessiva senza più ritrovare la rotta, né tantomeno una possibile meta. Angosce conradiane, alla Lord Jim. Si citano e evocano porti lontani con un sapore di avventura ottocentesca (o, se volete, da Corto Maltese). Antofagasta, Iquique. Il viaggio è diventato pura metafisica, tragitto mentale. Con scontri verbali sul destino, la fine, l’oltrevita. Un cinema che non ha nessun parente né prossimo né lontano nel panorama di oggi. Quello di Ossang, piaccia o meno, è un unicum. Con dentro un epos antico-virile, da guerrieri in lotta contro il fato e con la consapevolezza della sconfitta. Con una muscolarità del pensiero che a me ha fatto venire in mente Yukio Mishima. Vero, il tasso di retorica e, ebbene sì, di trombonismo raggiunge in certi momenti il livello di guardia. Non c’è levità, tutto è massiccio, poderoso, pesante, ferrigno, anche nell’astrazione. Ma è un cinema così inusuale e coraggioso da meritare la nostra attenzione a prescindere. Gran cast. Paul Lamy, l’ornitologo di Pedro Rodrigues applaudito proprio qui a Locarno l’anno scorso, è il protagonista. Gaspard Ulliel, reduce dal César vinto per È solo la fine del mondo di Dolan, è l’ambiguo medico-padrone.
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