Do You Wonder Who Fired the Gun? (Ti sei mai chiesto chi ha tirato il grilletto?) di Travis Wilkerson. Documentario. Concorso Internazionale.
Il regista parte per l’Alabama deciso a vederci chiaro in una storiaccia di famiglia, l’assassinio nel 1946 da parte del bisnonno razzista di un nero. Sarà un’indagine complicata. Intanto emergono altri pezzi di una violenza endemica e quasi genetica contro i black. La novità è che Wilkerson non adotta i codici austeri del cinema del reale, o del cinema di denuncia, ma enfatizza, massimalizza, esagera non negandosi niente: viraggi in rosso, grafica aggressiva, toni da B-movie (“questo è uno store stregato! pensate, tre persone ammazzate qua dentro!”). Peggiorando il tutto con la sua debordante voce fuori campo. Voto 4
Applausissimi a fine proiezione stampa. Io no, non ho applaudito. Ci sono dei film che semplicemente non sono a tua misura. Per i quali non hai i recettori giusti. Magari belli e importanti, ma incompatibili con la tua visione di cinema e, ebbene sì, del mondo. Questo Ti sei mai chiesto chi ha tirato il grilletto?, ma anche Ti sei mai chiesto chi ha sparato?, è quel tipo di film, pur trattando – mi rendo conto benissimo – un tema sensibile e ineludibile come il razzismo profondo, diffuso, quasi una malattia genetica, del Sud degli Stati Uniti. Anzi, lascia capire il regista Travis Wilkerson, dell’America tutta. È il tono sovreccitato, alterato e anche narciso (il regista si mette sempre di mezzo con una soverchiante voice over e con la propria storia personale e familiare che, come di fronte a certo Moretti, ti vien voglia di dire: per favore scansati che voglio sentire altro) a rendermelo indigeribile. Si comincia con spezzoni da Il buio oltre la siepe con Atticus Finch/Gregory Peck nobilmente impegnato nella difesa di un black accusato dello stupro di una bianca, spezzoni virati in rosso a imprimere una coloritura pulp che il bianco e nero dell’originale ovviamente non aveva. Perché Tom Wilkerson, autore a me non così noto ma che mi dicono essere doumentarista dal curriculum importante, ha di bello almeno questo. Che non si attiene ai codici austeri del documentarismo, alla penitenzialità del cinema del reale, ma sceglie una strada tutta sua, e devo ammettere originale, del docu fiammeggiante, sovreccitato, massimalista, ad alto tasso di emozionalità, sensazionalista. Tutto, pur di coinvolgere e travolgere lo spettatore e portarlo dalla sua parte. Che è anche, intendiamoci, la parte giusta. Perché, signori, non si può non provare raccapriccio e sdegno di fronte a cosacce infami quali segregazione razziale, linciaggio dei neri, suprematismo bianco e tutte le nequizie che Wilkerson ci sbatte addosso nell’ora e mezza del film. Peccato non abbia il senso della misura, né di una qualsiasi coerenza narrativa e stilistica. Sicché la pur encomiabile audacia di un documentarismo flamboyant crea solo cacofonia e ridondanza. Ma torniamo a Il buio oltre la siepe. Subito Wilkerson in voce fuori campo ci dice che se Atticus Finch è il bianco del Sud che si mette contro il ssuo mondo per stare dalla parte del nero innocente, lui invece deve raccontare la storia di un bianco dell’Alabama che un nero lo ha ammazzato. A colpi di pistola, E quest’uomo è il suo bisnonno S.E. Branch, un omone che nel 1946 uccise nel suo store un black di nome Bill Spann. Accusato di omicidio ma immediatamente prosciolto. Il bisnipote, che è sì bianco ma assai liberal, mica come quei buzzurri tarati dell’Alabama, vuole saperne di più, vederci chiaro, ricostruire cosa sia successo, scovare testimoni, riaprire l’album di famiglia. Con un’indagine in piena regola. E anche questo slittamento dal docu verso la detective story non sarebbe malaccio, se non fosse che Wilkerson non riesce a scoprire granché, anzi quasi niente, dunque divaga, tirando dentro cose anche importanti ma che non c’entrano molto con l’oggetto della sua ricerca. Non bastasse, ecco intermezzi grafici con cui si sparano a tutto schermo i nomi dei ragazzi neri uccisi negli ultimi anni da polizia e altri corpi di security, da Travyon Martin in avanti, come dire: ancora e sempre è il nero il bersaglio, il capro espiatorio della paranoia bianco-americana, non è cambiato e non cambierà niente. Sì, va bene, ma scusate, e il bisnonno? Come’è andata? Ce lo racconti o no? Lui ci prova, ma ovviamente ecco il muro di omertà e silenzio. Documenti spariti, bocche cucite. Una congiura. Certi orrendi ceffi lo seguono, probabilmente fanatici suprematisti bianchi armati e pericolosi. Intanto lui raccoglie e racconta altro. Le prime lotte antisegregazioniste. Le storie dei neri in fuga per non essere linciati. L’uccisione di un militante (bianco) impegnato nella lotta per i diritti civili accanto a Martin Luther King. Ne esce un quadro foschissimo, di violenza endemica, di una resistenza all’integrazione mai scomparsa del tutto e pronta a riesplodere. Che è anche molto interessante, ma non è proprio quanto il Wilkerson ci aveva annunciato e promesso in modo roboante all’inizio, la verità tutta la verità sul caso del bisnonno assassino. Interpella le zie rimaste, le figlie di quell’orco. Una, Jill, lo accusa: picchiava nostra madre, ha abusato sessualmente di me bambina, era un mostro, non c’è mica da stupirsi se ha ammazzato un nero. Un’altra, Jean (se ricordo bene il nome) invece lo difende, ha ucciso quel tizio solo per salvare una donna nera aggredita da lui. Ma, ci fa notare il regista, Jean è una militante della Southern Nation, movimento di suprematismo bianco-anglosassone che non riconosce il governo degli Stati Uniti, batte bandiera confederata e vorrebbe l’autonomia del Sud, depurato ovviamente di ogni altra etnia, neri in testa. Ora, sono tutti frammenti che vanno a comporre un ritratto allarmante. Solo che il risultato è assai diverso da quanto annunciato a inizio film. E tutto è casuale, confuso, mescolato in nome di una denuncia di fatti aberranti che peraltro parlano da soli. E non c’era bisogno del protagonismo del regista, del suo stile pulp (quei viraggi in rosso anche nella sequenza finale), delle sue retoriche e declamatorie esternazioni, del suo cinema sovreccitato e roboante, perché facessero presa sullo spettatore.
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