Mrs. Fang, un documentario di Wang Bing. Concorso Internazionale.
Un film che ha tutte le stimmate del vincitore annunciato: è di uno dei maggiori documentaristi in circolazione, il cinese Wang Bing. E racconta e mostra la fase terminale di una signora affetta da Alzheimer. Commovente e disturbante. Però, di fronte a questo pur autoriale cinema del dolore, qualche dubbio molesto affiora. Voto tra il 6 e il 7
Eccolo, il grande favorito al Pardo d’oro. Il Pardo annunciato (all’altro titolo che non può essere dimenticato nel palmarès, il flm postumo di Raul Ruiz La telenovela errante, verrà dato un premio speciale, vedrete). Pardo assai probabile, anzi quasi certo, perché Wang Bing è autore di rispetto, l’uomo che con la macchina da presa è andato negli ultimi dieci-quindici anni a frugare nella Cina più nascosta ma anche qualunque, media, ordinaria, e per questo trascurata, meno raccontata dai media. Mostrandone con occhio implacabile e insieme compassionevole le vite complicate, la modernizzazione vertiginosa che ha rimodellato paesaggi naturali e paesaggi umani, le faglie che si sono prodotte nelle piccole e medie comunità, e nelle famiglie, a causa dell’emigrazione, dell’industralizzazione. Anche, dell’abbandono dei valori tradizionali. Non si potrà ricostruire e capire la Cina nel suo processo di mutazione verso lo status di superpotenza senza i film di Wang Bing. Che sono presenze abituali ai maggiori festival, Venezia, Berlino, Locarno, spesso premiati (non ricordo un Wang Bing a Cannes in questi anni Dieci, ma potrei sbagliarmi). Come un altro grande asiatico, il filippino Lav Diaz, anche il cinese Wang Bing ama la lunga durata, riprese interminabili e ipnotiche in tempo reale, camera fissa incollata alle facce e ai corpi, o a contemplare glacialmente i paesaggi e le minuscole presenze umane che vi si muovono dentro. E dunque di solito, quando si vede in programma a un festival un Wang Bing, ci si prepara con animo zen a una visione di qualche ora. Invece stavolta la durata è quella, aurea, dei 90 minuti. Cui corrisponde una dimensione assai più intima dei suoi soliti lavori (l’ultimo, Ku Qian, presentato lo scorso settembre a Orizzonti a Venezia, era l’affresco multifocale di una piccola, infaticabile città di piccoli laboratori tessili attiva h24). Accettando l’invito di una signora conosciuta durante la lavorazione di un precedente documentario, WB va nella sua piccola città, nella sua casa, a riprenderne l’anziana madre da molti anni malata di Alzheimer e adesso nella fase terminale di disfacimento fisico e mentale. Sono novanta minuti commoventi, perturbanti, agghiaccianti. Il volto di Mrs. Fang, questo il nome della morente, implacabilmente sbalzato in primissimo piano dalla mdp, un volto che sembra pacificato o, al contrario, devastato dalla paura (dipende dai momenti, dipende da come lo osserva il regista e da come noi spettatori lo guardiamo). Minuti e minuti di lei a riempire lo schermo, ed è difficile restare insensibili. Mrs. Fang giace in un piccolo letto in una piccola stanza con un altro letto dove dorme la figlia, o altri, dove persone di famiglia, vicini, conoscenti convergono per assistere l’inferma e allo spettacolo della malattia e della morte (e viene in mente il Louis XIV di Albert Serra, quasi un docu in costume sugli ultini giorni del Re Sole). Si sciabatta, si fanno cose assai ordinarie, si parla di cibo, si fuma, si guarda la televisione, e Mrs. Fang a pochi passi immobile, apparentemente incosciente, nel suo giaciglio. Turbano la promiscuità, la mancanza di quella che noi chiamiamo privacy (ci sarà un equivalente in mandarino?), l’esposizione quasi pubblica, l’ostensione del corpo martoriato. Si parla già di funerale, si discute di dove seppellirla, se lì nel villaggio o in un altro accanto alla tomba del marito. Si partecipa alla sua agonia e insieme ognuno procede nella sua solita vita. Wang Bing, con una delle sue intuizioni che lo rendono molto più di un osservatore del reale, alterna le riprese nella stanza della moritura con frequenti esterni, chiacchiere e cene intorno a una tavolata, scene di pesca sul fiume lì vicino, melmoso e torbido, probabilmnete inquinato. Si resta turbati non solo dalla promiscuità, ma anche dalla scarsa attenzione a certe elementari norme di pilizia. Si eviscera e prepara il pesce lì, per terra (“oggi però non ci sono mosche a darci fastidio”, e meno male), si buttano mozziconi di sigaretta fuori dalla porta, per strada (e vien da dire, un po’ alla zia Pina, un posacenere no?). Dev’essere, diciamo così, l’eredità contadina del contatto immediato, tattile, sensoriale, con la terra, con l’acqua (e non è che nell’Italia del boom anni Sessanta fosse diverso). Impossibile vedendo Mrs. Fang scansare certe scomode riflessioni. Come: ma sarà meglio morire in una gelida, anonima struttura ospedaliera o a casa circondati come usa dire dall’affetto dei tuoi cari? Perché il quadro che esce da qui non è poi tanto confortante. Sì, le persone care vegliano e vigilano su Mrs. Fang, ma non ne hanno sempre il massimo rispetto, la scrutano come fosse una cosa, o un animale, in cerca di indizi di miglioramento e peggioramento (più i secondi, ovvio), la si tasta, la si tocca, sulla fronte, sulle braccia, ai piedi, per sentirne la temperatura corporea. Si fanno previsioni su quanto ancora potrà durare. Certo, quando arriva l’ultima ora i cari parenti versano lacrime sincere, e però è difficile dimenticare quanto si è visto prima. Mrs. Fang ha le stimmate del vincitore annunciato di Pardo d’oro. Il regista ha un curriculum indiscutibile, è già un maestro riconosciuto, e poi quale giuria può mai resistere alle sofferenze di una malata di Alzheimer? Però. Però viene da chiedersi se stavolta Wang Bing non abbia esagerato con il cinema del dolore, se quel suo riprendere un corpo nella fase ultima non sia eticamente discutibile. Certo, sento già le risposte, Wang Bing è assai rispettoso, non c’è voyeurismo nella sua mdp, non va a frugare in dettagli sordidi. Vero. Però, scusate, io questo film non sono riuscito ad amarlo.
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