Venezia 74. Recensione: NICO, 1988. Incredibile, un film italiano riesce a raccontare credibilmente una rockstar

35594-Nico__1988_-_Trine_DyrholmNico, 1988, un film di Susana Nicchiarelli. Con Trine Dyrholm, John Gordon Sinclair, Thomas Trabacchi, Annamaria Marinca. Orizzonti.

Susanna Nicchiarelli

Susanna Nicchiarelli

Gli anni dell’ombra e della decadenza di Nico, già diva e femme fatale dei Velvet Underground. Susanna Nicchiarelli ricostruisce con fedeltà e rispetto, e senza la retorica dei film sulle rockstar, la parte più oscura di una leggenda. Azzeccando climi, ambienti, attori. Il che per il cinema italiano, refrattario a certi temi e certi mondi, è cosa non da poco. Voto 6 e mezzo
35598-Nico__1988_-Trine_Dyrholm___Lorenzo_PiermatteiDiciamolo: le aspettative per questo film scelto come apertura di Orizzonti, la sezione seconda della Mostra, erano bassissime. Figuriamoci, una regista italiana alle prese con una rockstar leggendaria, e di una leggenda nerissima, come Nico. Musa maudite, femme fatale e quant’altro, anche se in primis cantante di voce fonda e notturna da rovinata dall’eroina, perennemente immersa in atmosfere di tenebre e fumo. Appare giovane e strabionda durante la sua fase di modella tra i debosciati della felliniana Dolce Vita, passa si dice per letti eccellenti come quello di Brian Jones, il Rolling Stone morto ragazzo per annegamento in piscina, approda in un passaggio non lunghissimo ma di quelli che ti segnano e consegnano al mito a New York come voce nera dei Velvet Undergrond. Vale a dire Lou Reed e John Cale, e l’ombra dell’albino Andy Warhol. Anni vissuti pericolosamente, come si usava allora, in quei Sessanta e primi Settanta di nichilismi e autodistruzioni di ogni tipo, quando la vita drogata sembrava il segno, il sigillo, del genio, e magari pure il passaporto per il successo eterno (vedi Jim Morrison). Nico. Ecco, ci si chiedeva come avrebbe potuto un regista italiano, una regista italiana, nato/a in un cinema antropologicamente lontano da quei mondi e quelle sensibilità, misurarsi con la narrazione di un simile personaggio. Invece – grazie a Dio ai festival ci sono anche le sorprese – Susanna Nicchiarelli ce la fa, confezionando un film dignitosissimo anche molto esportabile (il che non guasta), credibile, mai goffo. Senza quella cadute nel becero che si temono sempre nei film italiani anche di aspirazioni internazionali. Azzeccando gli attori, i climi, il tono generale. Perfino usando con naturalezza la lingua inglese che per gli italiani è sempre cosa difficile. Nicchiarelli ha anche l’accortezza di non ricostruire la fase di massima esposizione nella vita e nella carriera di Nico, di non cimentarsi con il mito nel suo fulgore, ma di raccontare la fase scura e oscura, semifinale e finale (Nico muore nel 1988 a Ibiza), della decadenza, dell’ombra. Nico non è più la donna feticcio della scena indipendente newyorkese, anzi ci tiene a ripetere come la sua collaborazione con i Velvet sia stata breve e non così scintillante (“cantavo le mie tre canzoni e poi mi mettevano in fondo al palco”). E che lei è (ri)nata solo come solista. Ha più di quarant’anni, è una donna segnata pesantemente da una vita complicata e dall’abuso di alcol e eroina. Ha un figlio che è stato allevato dai nonni paterni e psichicamente non così saldo. Il suo publico è scarso, ma è un pubblico di fedeli. Nico è, letteralmente, un culto. Con un agente che le è devoto, una piccola banda di non eccelso livello che l’accompagna, e via in tour dove ci sia una scrittura, alla periferia dei circuiti che contano. Da Manchester, la sua base (“ho scelto di viverci perché mi ricorda la Berlino distrutta dalle bombe della mia infanzia”), muove verso l’Eropa. La vediamo in una tappa italiana ad Anzio, la vediamo a Praga in un concerto presidiato dalla polizia. Nicchiarelli ha l’accortezza di presentarcela al di fuori della sua leggenda, che peraltro la stessa Nico rifiuta (“Chiamami Christa, non Nico: è quello il mio nome”). Ne esce un ritratto minuzioso e fedele, soprattutto rispettoso. Senza grandi invenzioni visive, ma anche senza quella retorica che circonda ogni biografia di rockstar variamente maledette. Grazie anche all’interprete, la danese Trine Dyrholm (attrice di Susanne Bier e di Thomas Vinterberg, per il cui La comune ha vinto il premio per la migliore interpretazione femminile alla Berlinale 2016). All’inizio sembra clamorosamente miscast, non possedendo niente dello charme, benché decaduto e corroso dalle droghe, della vera Nico. Ma si conquista man mano il nostro rispetto, oltretutto cantando, benissimo, le depresse e meravigliose ballate di Nico. Un buon film, e non è poi così poco. Avvistato Walter Veltroni (io l’ho trovato al bar davanti al Casinò), immagino qui a supportare Susanna Nicchiarelli, autrice qualche anno fa di un film tratto da un suo libro, La scoperta dell’alba.

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