Venezia 74. Recensione: ZAMA, un film di Lucrecia Martel. L’avventura coloniale come delirio e allucinazione

37352-Zama__1_Zama di Lucrecia Martel. Con Daniel Giménez-Cacho, Lola Dueñas, Matheus Nachtergaele, Rafael Spregelbuld. Fuori concorso.
37358-Zama__4_Film faticoso e sofferente. Come divelto, corroso, corrotto, disfatto. Lucrecia Martel, la regista di La cienaga e La niña santa, torno dopo nove anni con il suo primo period movie, ispirato a un classico della letteratura argentina. Un ufficiale delle colonie spagnole del ‘700 consuma la sua vita e ogni speranza aspettando un trasferimento che non arriverà. Un film tetro, lurido, claustrofobico. Con una narrazione disgregata che si fatica a seguire. Ma di una bellezza splendente benché malata. Film imperfetto e enorme, anomalo, come arrivato dal pianeta Marte del cinema. Uno dei vertici a oggi di questo festival. Da rivedere. Voto 8
37350-Zama__2_Tratto da un classico moderno della letteratura argentina (Zama di Antonio di Benedetto, 1956). Film che però ha pochissimo del romanzo, così almeno mi assicura un amico che lo ha letto, e che non ha niente della reverenza con cui si maneggiano di solito i classici. Ma che ci importa? mica staremo a riesumare la vetusta querelle dell’infedeltà del cinema rispetto alla letteratura. Parliamo piuttosto dello Zama secondo Lucrecia Martel (tra le migliori registe al mondo). Di questo film regale e povero, maestoso e straccione. Film coloniale, cupo e lugubre, pervaso da un sentore di sfascio, disfacimento, malattia, sconfitta, morte. Un’implosione di anime e corpi là in una città-avamposto di fine Settecento che dovrebbe essere Asuncion, interno profondo di America spagnola dove perdono i loro giorni e il loro senno, e ogni speranza, funzionari e ufficiali della corona, le loro piccole corti di lacché, e la massa degli indios schiavizzati o liberati ma sempre in condizione servile. Fine Settecento, la madrepatria è lontana e matrigna, qui c’è solo l’abbandono, e l’ignoto, la tenebra al di là dei territori conquistati e detti civilizzati. Don Diego de Zama è un ufficiale che molto ha dato alla causa della Spagna, molto ha combattuto, ma ora è disilluso, stremato. Da tempo aspetta di essere trasferito dal Re in un’altra città, più decente, più umana, ma nessuna risposta è mai arrivata da Madrid, forse le sue suppliche non sono nemmeno mai state inoltrate dal corrotto Governatore, forse non sono state nemmeno mai vergate. La vita di Don Diego si consuma nell’attesa infinita e nella crescente consapevolezza dell’inganno, mentre intorno a lui prospera quella losca comunità percorsa da soprusi, violenze, prepotenze, umiliazioni, feroci divisioni di casta, corruzioni. Lucrecia Martel che con i suoi tre film precedenti (La cienaga, La Niña Santa, La mujer sin cabeza) ha lasciato tracce profonde, e assente dalla scena dal lontano 2008, finalmente torna con questo si dice tormentatissimo film, dalla lunga e spossante lavorazione, coprodotto come gli altri suoi dai fratelli Almodovar. Un’opera, Zama, già circonfusa di un’aura di leggenda, e di una leggenda non sempre benevola. Atteso da anni e finalmente apparso qui a Venezia, dove è stato messo prudentemente fuori concorso. Perché questo è cinema divisivo, troppo arrischiato – Lucrecia Martel per la prima volta gira un film in costume però ripudiando ogni leziosità e manierismo del genere -, troppo differente per mandarlo allo sbaraglio nell’arena di una competizione (ma ve la immaginate certa critica made in Rome al press screening in Sala Darsena? sarebbe stata una mattanza). Zama è spossante e spiazzante, perfino repulsivo, di quei film che fan di tutto per non farsi voler bene e tenere a distanza chi guarda. Martel frantuma ogni coesione narrativa, procede quasi ansimando per blocchi quasi irrelati tra loro, e spesso di difficile decifrazione. Ambienti angusti, sozzi, sordidi in cui si affollano cenciosi e signori, schiavi e dame, ma la cupezza, il senso di oppressione è per tutti lo stesso. I corpi si ammassano, si confondono, la tecnica di ripresa li schiaccia quasi l’uno sull’altro togliendo il più possibile la profondità di campo, non c’è quasi mai un centro dell’inquadratura, spesso vediamo solo pezzi di corpi, una schiena nuda, braccia, una testa rovesciata, e intorno cenci e spesso animali. Don Diego de Zama si aggira come un sonnambulo, con sulla faccia i segni di un mal di vivere che è diventato anche malattia del corpo. Accetta ogni incarico, anche il più vile e disonorevole (come la denuncia del povero funzionario che ha avuto la mala idea di scrivere un libro, attirandosi l’odio del potere locale) pur di compiacere il governatore e attraverso di lui ottenere dalla Corona l’agognato trasferimento. Dovrà perfino far parte di una spedizione incaricata di catturare una criminale che da anni terrorizza i coloni. Martel ci consegna solo brandelli di racconto, tutto è divelto, indistinto, tetro, angoscioso, allucinato. Come visto attraverso gli occhi malati di Zama. Solo ogni tanto la macchina da presa esce dai tuguri – anche i palazzi del potere qui lo sono – per dilatare il suo sguardo ai paesaggi. Ed è allora che scopriamo la stupefacente ricchezza visiva di questo film, che abbandona ogni facile formalismo per cercare la sua bellezza clandestinamente, tortuosamente, attraverso un lungo cammino nel lercio, nel fangoso. Solo la natura sfolgora di immediata, lampante bellezza. L’ultima parte, quella della spedizione, sottrae il film alla claustrofobia che lo stava soffocando e forse uccidendo. Ma è solo un intervallo, prima di altre catastrofi, sconfitte, massacri. In quest’ultima parte si sentono gli echi dei film amazzonici herzoghiani, con i loro eroi scagliati in una natura dominatrice e ignota, e destinati alla sconfitta. E sono gli unici momenti in cui questo film di Lucrecia Martel, anomalo anche rispetto anche alle sue prove precedenti, sembra richiamare un cinema già conosciuto. Martel si è inoltrata temerariamente in una terra incognita realizzando qualcosa di sghembo, imperfetto, che anzi rigetta la stessa idea di perfetto e concluso, con un montaggio sconnesso di cui si fatica ad afferrare il piano. Film sofferente, e come realizzato nella sofferenza. Nella sua decostruzione dei codici del period movie ho intravisto anche qualche affinità con il cinema di Albert Serra, il suo film su Casanova e quello sugli ultimi giorni di Luigi XIV. Per il resto, è come atterrare sul pianeta Marte del cinema. Daniel Giménez-Cacho, il protagonista, era il prete tentato dai ragazzini in La mala educacion di Pedro Almodovar.

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