Sweet Country di Warwick Thornton. Con Hamilton Morris, Bryan Brown, Thoma M. Wright. Concorso Venezia 74.
Western australiano che mette in scena per l’ennesima volta (nel cinema di laggiù) le complicate relazioni tra aborigeni e colonizzatori. Anni Venti, nell’outback più selvaggio: un omicidio fa esplodere le tensioni latenti e i già precari equilibri tra nativi e signori della terra. Film corretto, forse anche necessario, ma inesorabilmente qualunque e déjà-vu. Voto 5
Uno di quei film decorosi, corretti, ben fatti, mossi dalle migliori intenzioni socio-umanitarie, ma non così incisivi, non così personali da riuscire a farsi largo a un festival e rendersi visibili. Inesorabilmente sopraffatti dalla massa di titoli che affollano le varie sezioni. Sembra anche di averlo visto mille volte, questo Sweet Country. Che, ambientato com’è negli anni Venti nell’outback australiano e relativi maestosi paesaggi, ha tutta l’aria di un western degli antipodi, e anche la storia che racconta è molto western. Ispirata a fatti realmente accaduti là, nel bush oltre Alice Springs, ma universale (e potrebbe benissimo essere nel profondo sud statunitense con i neri al posto degli aborigeni). In una terra che sembra ancora senza legge, con i landlords bianchi che dettano la loro legge privata, con gli aborigeni ridotti in condizioni di semischiavitù, con la violenza come sistema di controllo sociale, ecco il fattaccio che rischia di far saltare i già precari equilibri e far esplodere le non troppo latenti tensioni. Succede che un aborigeno uccida un signorotto locale bianco, arrogante e prepotente, che stava per penetrare in casa sua e farlo fuori. Legittima difesa limpidissima. E però da quelle parti l’uomo dalla pelle scura non può uccidere l’uomo dalla pelle chiara, sicché l’aborigeno deve darsi alla macchia insieme alla moglie per sottrarsi alla giustizia sommaria. Arriverà un giudice a cercare di mettere ordine nel caos, ci saranno sviluppi e esiti drammaticissimi. Ora, l’intento virtuoso degli autori di Sweet Country è ricordare quante lacrime e sangue degli aborigeni sia costata la cosiddetta civilizzazione arrivata dalla lontana Inghilterra. Tema non nuovo, e perfino osessivo, del cinema australiano, basti pensare ai remoti L’ultima onda e Picnic a Hanging Rock di Peter Weir. Non è mai troppo tardi per cospargersi il capo di cenere ed emendarsi dai peccati e dalle colpe passate, ed è a questa pulsione che Sweet Country obbedisce. Sì, ma con le buone e ottime intenzioni non si fa automaticamente del buon cinema. Questo film non riesce a dirci molto, se non a ricordarci chi fossero i buoni e i cattivi. Qualche sfumatura in più non avrebbe guastato. Se almeno Warwick avesse impresso un’impronta stilistica forte. Certo, opta per una messinscena austera, senza orpelli e bellurie, tendente qua e là (ma non sempre purtroppo, e senza troppa coerenza) a una certa ieraticità da sacra rappresentazione. Ma anche qui non osa davvero, non va mai oltre la medietà. Come aveva invece fatto a suo tempo un altro regista australiano, Andrew Dominick, rimodellando il genere western nel suo bellissimo L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford presentato proprio qui a Venezia dieci anni fa.
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