Venezia 74. Recensione: ANGELS WEAR WHITE di Vivian Qu. Un film dalla parte delle ragazze (e qualcuno purtroppo parla di possibile Leone)

37628-Jia_Nian_Hua__Angels_Wear_White__1_-_key_still_-____22_Hours_FilmsAngels Wear White (Jia Nian Hua) di Vivian Qu. Con Wen Qi, Zhou Meijun, Shi Ke, Geng Le. Concorso Venezia 74.
37622-Jia_Nian_Hua__Angels_Wear_White__2_-____22_Hours_FilmsCina, oggi. In una piccola città di mare l’abuso di due ragazzine mette in moto una reazione a catena. Emergono vizi, turpitudini, collusioni, corruzioni. Un film schierato per la causa femminile. Didascalico. Esemplare. Attenzione: voci insistenti a poche ore dalla premiazione lo danno tra i favoriti al Leone d’oro. Speriamo vengano smentite. Voto 5 e mezzo
37626-Jia_Nian_Hua__Angels_Wear_White__3_-____22_Hours_FilmsIn una piccola città di mare da qualche parte della Cina, oggi. Dappertutto, segni di un medio benessere. Volgarità e arroganza del denaro. Due ragazzine, dodici anni, amiche, compagne di classe, vengono portate in un hotel di ordinario squallore da un signore  benestante, e lì abusate. Così risulterà difatti dai controlli medici cui gli attoniti genitori sottoporranno le figlie. Intanto seguiamo una trama parallela intorno a una ragazza di età indefinita (lei mente sugli anni perché minorenne) e priva di documenti, di fatto clandestina, impiegata (sfruttata) in quell’hotel come femme de chambre e oaccasionalmente receptionist. Sostituiva al desk la collega la sera dell’uomo e delle due bambine. Forse sa. Forse ha le prove di cui c’è bisogno per incastrare il sospettato. La interpella e le sta addosso perché riveli quel che sa l’avvocatessa che si occupa del caso. Ci saranno sviluppi sconcertanti e colpi di scena non così imprevedebili. Una detection che, come nei migliori esempi del genere, si fa occasione per scoperchiare il solito verminaio di bassezze, turpitudini, avidità, collusioni, miseri giochi di potere. In una società divisa tra chi non deve chiedere mai e chi non ha nemmeno la voce per chiedere, gli ultimi, le vittime designate, gli innocenti (ma non sempre senza macchia). Vivian Qu si concentra sulle figure femminile, sul mondo femminile, tracciando l’ennesima narrazione dalla parte delle donne. E delle bambine. Non ci sono molte sfumature. Gli uomini sono marci e corrotti, le donne le loro vittime. Anche quando compiono scelte eticamente discutibili son sempre giustificate per via di un passato difficile, di una famiglia abusante e quant’altro. Il film precedente della regista cinese, Trap Street, visto qui a Venezia alla Settimana della critica 2013, prometteva meglio, uno spy thriller sull’ambiguità di quanto ci ostiniamo a chiamare verità. Mentre qui tutto è netto e nitido, senza ombre, buoni e cattivi rigidamente separati e contrapposti, e un veterofemminismo un po’ sdato (vogliamo parlare della ragazza che perde il lavoro e puntualmente prostituita dal suo fetente boyfriend? Che neanche in un melodramma italo-popolare anni ’50). Vivian Qu gira assai bene, ma commette anche il peccato, assai diffuso nei film da festival, dell’uso e abuso di metafora. Stavolta è una statua gigante in un squallido parco giochi a bordo mare di Marilyn (con gonna plissé e gambe scoperte dalla scena di Quando la moglie è in vacanza) a dirci e darci significati che non abbiamo nessuna voglia di star lì a cogliere. Alla fine viene smontata e fatta a pezzi, e vi prego, non ditemi che Vivian Qu allude alla condizione delle donne in Cina. E vi prego, signori giurati, signora presidentessa Annette Bening, non date il Leone a questo film, come certi rumors dicono che avverrà.

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