Recensione: UNA FAMIGLIA, un film di Sebastiano Riso. Ma era il caso di metterlo in concorso a Venezia?

37630-Una_famiglia__1_Una famiglia di Sebastiano Riso. Con Micaela Ramazzotti, Patrick Bruel, Ennio Fantastichini. Al cinema da giovedì 28 settembre.
show_photo-2Vincent e Maria producono bambini per venderli ad alto prezzo alle coppie sterili. Ma lei è depressa, non ci sta più. Seguiranno trucide complicazioni. Il catanese Sebastiano Riso va dritto a una delle ossessioni della contemporaneità, il desiderio di un figlio a ogni costo, ma lo fa adottando modi sensazionalistici, in una sorta di pasolinismo male assimilato e degradato. Il peggior film del Festival di Venezia 2017. Voto 3
37640-Una_famiglia__2_Giusto un anno fa, al festival di Venezia 2016, era italiano il peggior film in concorso (Piuma di Roan Johnson), quest’anno la maledizione si è ripetuta. Come definire questo improponibile Una famiglia, opera seconda del catanese Sebastiano Riso? Diciamo imbarazzante (e siamo educati). Che uno si chiede come come si sia potuto metterlo in comeptizione per il Leone in quota Italia (e quando il coro amico grida compiaciuto al sorpasso del Lido su Cannes vien da dire: allora come la mettiamo con Una famiglia? e con l’Ai Weiwei di Human Flow?). D’accordo, non è che il nostro cinema pulluli di capolavori, ma qualcosa di meglio si poteva inserire, ad esempio il bel Gatta cenerentola di Alessandro Rak, confinato chissà perché nella sezione Orizzonti.
Il regista Sebastiano Riso comunque gode di alta considerazione – e per me è un mistero per niente gaudioso – non solo in Italia ma pure fuori, tant’è che nel 2014 il suo lungometraggio d’esordio, Più buio di mezzanotte, venne scelto per aprire nientedimeno che la Semaine de la Critique a Cannes. Film che già conteneva tutto il senso per il turpe e la propensione per i fangosi margini sociali del suo autore, film trucido e laido, con dentro un pasolinismo di riporto malcompreso e anche peggio assimilato. Ma credo che più che di Pasolini per il cinema di Riso si dovrebbe parlare, se proprio si vuol cercare un antecedente, dell’Aurelio Grimaldi di Le bottane o Nerolio. Nel genettiano (si fa per dire) Più buio di mezzanotte si seguiva un transgender ragazzino, tra repressione di famiglia e losche avventure nei bassifondi di Catania e nel cinemacci porno. Qui niente omosessualità, e invece un tema di quelli sensibilissimi e torridi della nostra ipermodernità. Intendo, la maternità e paternità rincorse con ogni possibile mezzo, anche con altri mezzi che non siano quelli adottati da qualche decina di migliaia di anni da Homo Sapiens. Però, e qui sta la vena neo-neorealista e neo-neoborgatara di Riso, in Una famiglia non si entra nei laboratori della fecondazione assistita, nelle alchimie delle terapie ormonali e dei trapianti in utero degli embrioni, degli acquisti di sperma e ovociti nelle apposite banche. No, qui niente tecnoscienza, e invece come in un melodramma anni Cinquanta si commissiona a una coppia la gravidanza e poi se ne compra il pupo. Per almeno mezz’ora non capiamo niente del film, non riusciamo ad afferrarne il baricentro, vedendo solo una coppia malmostosa farsi del male in un cattivo Scene da un matrimonio de noantri. Lui, Vincent detto Vincenzo, è un francese approdato chissà perché in Italia (si lascia intuire un torbido passato), lei Maria è una povera donna succube e innamorata di quel compagno-padrone. Fanno parecchio l’amore, ma sono anche molto, molto infelici. Specialmente lei, insoddisfatta e depressa, versione bassa del monicavittismo antonioniano. Lui, tenebrosissimo e ambiguo (pensare che l’attore, Patrick Bruel, nasce in Francia come popstar canterina), le si concede e si sottrae, la lusinga e la maltratta, portando all’esasperazione l’alienata de periferia (abitano in un orrendo palazzone con vista sul raccordo anulare). Dialoghi inascoltabili che neanche nelle peggio novelas latinoamericane. Il regista fa aleggiare il mistero intorno ai due sciagurati, ma anziché tensione e suspense provoca solo lo sbadiglio. Va anche peggio quando scopriamo che lei è una fattrice di bambini in quella fabbrichetta familiare di pargoli messa su dal torvo Vincent. Lui che pianifica fabbricazione e vendita del prodotto, lui che attraverso un’orrida intermediaria si procura i clienti, lui che fa seguire, anzi controllare Maria da un ginecologo complice. Ma anziché concentrarsi su questi sporchi ma pur sempre interessanti maneggi il film si dilunga purtroppo anche nei tormenti di coppia, con Maria in preda ai peggio bovarismi. Tant’è che decide di ricorrere a un anticoncezionale per non restare più incinta. Basta, si chiude la fabbrica. Figuriamoci lui quando se ne rende conto e si vede sfumare il guadagn (e la scena in cui le toglie a forza la spirale è puro trash).Riso va a pescare in una faccenda terribilmente seria come il desiderio di paternità e maternità a ogni costo, e oltre ogni ragionevolezza, peccato che trascini tutto nella spazzatura. E che ansie autorialistiche, di promozione nella serie A del cinema. Come dimostra quel piano sequenza con mdp che esce dal palazzo, fa un ampio giro e poi ci rientra, a citare (forse) il leggendario finale di Professione: reporter di Antonioni. Indizio che rivela quali siano le ambizioni del regista e la sua autostima (nell’area press dedicata al film sul sito Biennale Cinema ci sono ben 11 foto scaricabili, dico 11, di Riso: record assoluto del festival). Scene di inarrivabile ma purtroppo non ghiotto trash, come quella del cassonetto, diventata al Lido subito leggenda. Il problema di Una famiglia non è il rovistare nella melma, ma come lo fa, e lo sguardo adottato. E la compulsione a épater prevale sempre. Micaela Ramazzotti abbandonata a se stessa in una parte impossibile con battute allucinanti. Di buono (insoma) almeno Una famiglia si astiene dai soliti correttismi politici, arrivando a mostrarci una coppia gay che non si fa il minimo scrupolo a commissionare a Vincent e Maria un bambino. E poi a rispedirlo indietro ai mittenti quando si rende conto che è nato malato. Ma Riso a questo proposito mette le mani avanti, facendo dire a uno dei due: “abbiamo tentato per anni di adottarne uno, ma niente da fare. Questo paese non cambierà mai”. E no, troppo facile giustificarsi accusando l’Ialia di arretratezza e insensibilità verso i diritti gay: comprare bambini è cosa infame e senza attenuanti. Punto.

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