120 battiti al minuto (titolo originale: 120 battements par minute, sintetizzato nell’acronimo BPM), un film di Robin Campillo. Con Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Antoine Reinartz, Adèle Haenel. Al cinema da giovedì 5 ottobre 2017.
Parigi, primi anni Novanta: le morti per Aids sono al loro massimo storico. Un gruppo di gay riuniti nel collettivo Act Up pratica forme estreme di protesta per attirare l’attenzione su un’epidemia dimenticata, e spingere le case farmaceutiche alla ricerca di nuove e più efficaci terapie. Poteva essere un film militante alla vecchissima maniera. Ma Robin Campillo, che quella stagione l’ha vissuta, riesce nel miracolo di raccontare senza eccessi ideologici, senza retorica, senza proclami militanti, stando addosso ai suoi personaggi e alle loro storie. Grand Prix (il secondo per importanza dopo la Palma) al festival di Cannes 2017. Candidato francese all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, con buonissime chance di arrivare fino in fondo. Voto 8
Per me Robin Campillo resta il regista di un film che nel 2013 vinse la sezione Orizzonti a Venezia, Eastern Boy, marchettari dall’Est europeo alla Gare du Nord a Parigi e un signore che, portandosene uno a casa, si ritrova poi in balia di tutto il gruppo. Un film “a tematica lgbt”, anzi “lgbtqi” (q sta per queer, i per intersexual), tra i meno compiacenti e virtuosi, e più sconvenienti, degli anni Duemila. Campillo aveva già allora un curriculm di peso, sceneggiatore di Laurent Cantet per La classe e Verso il Sud, padre con il film Les Revenants della successiva e omonima zombie-serie francese, e però Eastern Boys fece capire di come potesse essere autore in proprio. Bene, la conferma è arrivata con questo 120 battiti al minuto presentato in concorso a Cannes e accolto con indifferenza al press screening, tutt’al più con svagata benevolenza dalla platea dei critici, surtout les italiens (scusate, io c’ero e lo posso dire: che poi a fine festival, dopo l’assegnazione da parte della giuria del Grand Prix a BPM e le ottime review della stampa francofona, molti dei nostri recensori web e cartacei siano di colpo saliti sul carro del vincitore insieme sconsola e lascia sbalorditi).
Anch’io mi sono accostato diffidente, visto il tema ultrapoliticamente corretto intorno a cui si snoda, nientedimeno che le lotte del gruppo d’assalto omosessuale Act Up nella Parigi primi Novanta segnata dall’Aids, lotte contro certe case farmaceutiche (Big Pharma! ancora!) accusate di ritardare la messa in commercio di nuovi farmaci più efficaci del fino ad allora usato AZT. Ecco, m’aspettavo un film militante a una sola dimensione, vecchia maniera, con schematismi ideologici, rigida divisione di campo tra buoni e cattivi, netta demarcazione tra bene e male. Robin Campillo si attiene in apparenza a questo modello, in realtà lo mette in cinema smorzando i toni declamatori, abbassando le urla da piazza, ammorbidendo le asperità combattenti, e riuscendo pure a evitare le spieghe e i tecnicismi medicali che in una narrazione si sa sono un tossico letale. Con scelta felice situa la macchina da presa ad altezza d’uomo, e sono le persone, sono le anime e i corpi infragiliti dalla malattia, devastati e corrotti nella fase terminale dell’Aids, che a lui importano (e pure a noi spettatori, se è per questo), più che il turgore della lotta. Mai si sacrificano (nel racconto) gli umani al messaggio, alla causa, capovolgendo quello che è stato il dogma di molto rivoluzionarismo di ogni tipo, genere e colore, ovverossia il primato della prassi e del collettivo sulla soggettività e l’individuo, sempre sottomesso al Grande Disegno della Storia.
Parigi, primi anni Novanta. Riunioni concitate di Act Up, branca francese del movimento nato in America per sensibilizzare, anzi costringere all’attenzione, i distratti poteri (politico, economico, mediatico) sull’Aids, su come la gente stia morendo mentre la ricerca di nuove e migliori terapie langue. Act Up si distingue per l’aggressività delle sue pratiche da guerriglia, azioni clamorose con lancio di finto sangue, occupazioni, slogan violenti, sputtanamento degli omosessuali famosi e nascosti che in pubblico non supportano la causa gay o la ostacolano. Metodi discutibili, soprattutto la pratica del forzato coming out altrui, ma che attirarono l’attenzione sull’Aids. Ecco, a Parigi si dibatte tra i militanti sul che fare e come fare, e i militanti sono perlopiù sieropositivi o già in Aids conclamato (la conta dei linfociti è pratica e ossessione quotidiana per tutti), omosessuali, tossicodipendenti, anche eterosessuali, anche emitrasfusi. Ci sono lesbiche, ci sono madri di ragazzi positivizzati. Si fano irruzioni, si attacca ai convegni istituzionali e bon ton sull’Aids (e però, a pensarci bene, ha davvero senso l’accusa di Act Up a una casa farmaceutica di ritardare la diffusione di terapie di nuova generazione, immagino gli anti retrovirali? Ma scusate, una company non avrebbe tutto l’interesse economico a immettere sul mercato il prima possibile i propri prodotti? E non è che magari avevano ragione proprio loro nel sostenere che i farmaci non potessero essere commercializzati perché allo stadio sperimentale?). Robin Campillo, che di Act Up ha fatto parte, anche se abbassa il clangore delle fanfare ideologizzanti, ripropone la narrazione consolidata che vede in Big Pharma il Grande Satana, in una mancanza di chiariscuri che è il limite vero del film. Grazie a Dio a prevalere nell’economia narrativa sono le storie singole e private, su tutte quella di Sean, ragazzo in Aids conclamato, che trova tra i combattenti del gruppo un compagno devoto e innamorato che lo assisterà fino alla fine. E la lunga scena della morte, tenuta su un registro non lacrimevole e di massimo pudore e dunque ancora più commovente, non la si dimentica ed è il vertice del film. In alcuni passaggi 120 battiti al minuto ricorda Après Mai di Olivier Assayas nel ricondurre il ritratto di un gruppo di lavoro politico alla soggettività e alle oscillazioni psichiche dei suoi componenti, ma anche nella fluidità del racconto e l’eleganza della messa in cinema, pur con un tema così impervio. Non c’è grazie a Dio alcuna santificazione degli omosessuali, nessuna retorica martirologica, piuttosto la capacità di rendere degli omosessuali certe peculiarità, come la feroce autoironia anche nei momenti più cupi (qualcosa che apparenta la cultura gay a quella ebraica nella sua variante yiddish), o il coraggio ben mascherato dall’apparente frivolezza. Robin Campillo traccia un ritratto sensibile di una stagione difficile, e a posteriori mitizzata, dell’omosessualità militante nel secondo Novecento, ma anche cauteloso per come si astiene dall’esplorare eventuali zone d’ombra e contraddizioni. E però un qualcosa ci lascia intendere quando ci mostra Sean, sempre più debole e malato, ribellarsi alla precettazione del gruppo all’ennesima azione dimostrativa, sentendosi strumentalizzato da una pratica rivoluzionaria che si è dimenticata di lui. Mentre è sconcertante, per non dire peggio, la scena in cui un militante indica due libri da sabotare in quanto antigay, e uno è di Baudrillard. Prefigurando quella censura in nome del politicamente corretto che oggi, soprattutto nei campus americani, ha assunto dimensioni allarmanti.
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