Recensione: IL PALAZZO DEL VICERÈ, un film di Gurinder Chadha. La partition tra India e Pakistan diventa un mélo alla Bollywood

_P8A0313.JPG_P8A2106.JPGIl palazzo del Vicerè (Viceroy’s House), un film di Gurinder Chada. Con Gillian Anderson, Hugh Bonneville, Manish Dayal, Huma Kureshi.
500833L’epic coloniale alla David Lean si ibrida con Bollywood per raccontare, tra Storia e love story, la cruciale Partition. Quella che, giusto 70 anni fa, fece dell’India coloniale (ricordate I figli della mezzanotte?) due stati rivali e ancora oggi opposti per appartenenza etnica e religiosa, India da un lato e Pakistan dall’altro. Siamo nel fatale 1947, da Londra viene mandato a Delhi Lord Mountbatten quale Vicerè incaricato di gestire la difficile transizione. Mentre una passione travagliatissima tra un hindu e una musulmana butta in mélo e lacrime la  questione. Non proprio un gran film, zavorrato da eccessi soappistici e da una regia qualunque. Ma val la pena vederlo per il pezzo di Grande Storia che racconta e che è assai utile ripassare. Voto 5+
_P8A1552.JPGEpic alla David Lean ma purtroppo senza David Lean che mischia Storia e storie private intorno a una svolta cruciale del Novecento, la Partition dell’India già colonia britannica in due stati fieramente rivali, l’India così come la conosciamo e il Pakistan. La prima a prevalenza hindu, il secondo musulmana. Nota: Pakistan che allora comprendeva anche il Bangla-desh, sucessivamente autoproclamatosi stato indipendente. Un tempo un simile cinema popolare e altamente divulgativo che rifletteva sull’ascesa e declino della superpotenza inglese lo produceva la Gran Bretagna con l’aiuto di Hollywood, penso a Lawrence d’Arabia, Le quattro piume, 55 giorni a Pechino, Passaggio in India, adesso si chiedono capitali di sostegno a Bollywood e fors’anche un pubblico, ed è sign of times. Anche perché quella di Bombay (scusate, ma continuo a preferirlo all’induisticamente corretto Mumbay) è l’unica cinematografia che rischi soldi sul genere storico potendo contare su masse sterminate di spettatori che ancora apprezzano. Di british qua dentro ci sono alcuni attori, c’è la nostalgia e quella fascinazione tuttora intatta per l’India ‘gioiello della corona’, mentre la regista Gurinder Chada, di radici indiane ma inglese (Sognando Beckham), si colloca tra le due culture, i due mondi, quindi sulla carta la più adatta con la sua doppia identità a affrontare l’impresa. Ne vien fuori un film mediocremente da vecchia tv ma interessante non solo per come racconta la Grande Storia ma per come ibrida i modi e i linguaggi dei lontani epic angloamericani con quelli del melodramma bollywoodiano, da cui evidentissimamente mutua la love story che fa da sottotrama.
Il vicerè del titolo è l’ultimo degli inglesi che si sono succeduto in India nei tre secoli di possesso coloniale, è Lord Mountbatten, è cugino della futura regina Elisabetta, ha come compito quello di chiudere la pratica, di liquidare l’India coloniale, di avviarne l’indipendenza. Siamo nel 1947, e il vicerè se la deve vedere con la spaccatura sanguinosa, letteralmente, tra hindu e musulmani. Una di quelle faglie culturali implacabili così acutamente rilevate da Samuel Huntington nel suo (davvero epocale) Scontro delle civiltà. Una convivenza pacifica sotto il segno della democrazia nascente e post-coloniale sarebbe, sembrerebbe la soluzione ideale, ma quanto sta succedendo spinge nella direzione opposta. Gli scontri tra le due etnie, gli attacchi dell’una sull’altra si susseguono causando massacri su entrambi i fronti. I musulmani vogliono uno stato loro, ricavato dalla parte occidentale e dal Bengala, e chiamato Pakistan, gli indiani, almeno quelli del nazionalismo religioso oltranzista, vogliono un’India propria, monoetnica, depurata il più possibile della presenza islamica.
Il palazzo del Vicerè si muove su due livelli, quello della Storia maggiore, con Lord Mountbatten e la moglie Edwina, donna intelligente e battagliera che si ritaglia un ruolo attivo nei complicati avvenimenti (lei sarebbbe per la soluzione conservativa, ma avrà la peggio quando Churchill deciderà per la divisione sotto la pressione dei leader dei due schieramenti, Jinnah e Nehru. Con Gandhi a fare il grande saggio unitarista senza entrare nel fuoco dello scontro). Son migrazioni colossali, hindu che scappano dall’area ormai solo musulmana, musulmani che lasciano l’India dominata dagli induisti dopo i pogrom di cui son stati vittima. E a morire in questa doppia e speculare pulizia etnica saranno milioni. L’altro piano è quello di una storia d’amore Romeo-e-Giulietta tra un ragazzo hindu e una musulmana, fin tropo esemplare e didascalica, ed è nei suoi eccessi sentimentali e nei suoi languori la parte bollywoodiana più riconoscibile. Film qua e là troppo ingenuo e elementare per convincere lo smagato pubblico d’Occidente, figuriamoci le platee stampa della Berlinale, dove è stato dato (e dove l’ho visto) lo scorso febbraio fuori concorso. L’ultima mezz’ora, con quelle vite triturate dal Grande Gioco della geopolitica (si scoprirà che dietro alla ‘partition’ ci sono anche i sovietici, e l’Occidente interessato a tenersi buone le nuove potenze petrolifere musulmane) ha una sua nobiltà. Anche se il vezzo e il vizio terzomondisti di buttare sempre la croce addosso a Europa e America irrita un attimo, e anche un po’ di più. Ma scusate, se hindu e musulmani si sono massacrati non sarà stata solo colpa del bieco imperialismo bianco. Cinematograficamente qualunque, il film ha almeno il merito di riportare all’attenzione collettiva un passaggio epocale che ancora fa sentire i suoi effetti sulle relazioni tra India e Pakistan. E sui rispettivi fondamentalismi nazional-religiosi (l’estremismo hindu sta conoscendo nell’India attuale un risveglio assai minaccioso). Gillian Anderson da X-Files a convincente moglie del vicerà con perfetto accento ruling class. Attenzione: è una delle ultime interpretazioni di Om Puri, leggenda del cinema indiano scomparso lo scorso gennaio (qui è il padre cieco della ragazza musulmana). Neeraj Kabi è uno sdentato, impressionante Gandhi. Hugh Bonneville ha il giusto aplomb british quale Lord Monutbatten, ma non ce la fa a restituire il fascino e la bellezza dell’originale.

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