Una donna fantastica (Una Mujer Fantástica), un film di Sebastián Lelio. Con Daniela Vega, Francisco Reyes, Luis Gnecco, Nicolas Saavedra. Premiato alla Berlinale 2017 con l’Orso d’argento alla migliore sceneggiatura.
Uno dei film migliori della Berlinale 2017 (premio per la sceneggiatura), attuale candidato cileno all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, con ottime chance di entrare nella cinquina finale.
Santiago del Cile. Una trans di nome Marina si ritrova ad affrontare il post-mortem del suo uomo, un signore borghese di modi eleganti. E son problemi con la moglie, con il figlio. Senza clangori, senza bandiere da gay pride, senza prediche sui diritti, il regista Sebastian Lelio ci dà il ritratto ravvicinato di una donna che, semplicemente, difende la sua dignità. Voto 7 e mezzo
Sarà un percorso a ostacoli quello di A Ciambra, il film di Jonas Carpignano designato a sorpresa dall’Italia – e con successive polemiche da parte dello sconfitto e non nominato Sergio Castellitto di Fortunata – come proprio rappresentante nella corsa all’Oscar per il miglior film in lingua straniera. Dovrà prima entrare nella shortlist di nove titoli, e già questo, poi nella cinquina finale, e mica sarà tanto facile, anzi sarà lotta dura vista la quantità (9o titoli in tutto, da tutto il mondo) e la qualità degli avversari che si ritrova a fronteggiare. A partire dal favorito, il francese 120 battiti al minuto (che però da noi nessuno è andato a vedere, a dolorosa conferma dell’imbarbarimento del medio spettatore italico), e da questo molto ben piazzato, stando agli Oscar predictors, Una moglie fantastica del cileno Sebastian Lelio. Film che fin dalla sua prima mondiale lo scorso febbraio alla Berlinale è parso solidissimo, convincente, e destinato a sicura carriera internazionale, prontamente omaggiato a fine festival con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura (e se la giuria presieduta da Paul Verhoeven gli avese dato un premio anche più consistente non ci sarebbe stato niente da ridire). Uscito dalla factory dei fratelli Larrain, come gran parte di quel nuovo cinema made in Chile ormai tra i più interessanti e vitali del panorama internazionale, Una donna fantastica conferma in pieno il salto di qualità effettuato dal regista Sebastian Lelio nel 2013, sempre alla Berlinale, con Gloria (riscattando il suo precedente e terribile El año de la tigre dato a un Locarno FF). Anche stavolta Lelio, come in quel gran successo arthouse mondiale, mette al centro della sua narrazione una donna fuori dalla medietà, a modo suo straordinaria. Una donna che si chiama Marina Vidal, cameriera in un ristorante di Santiago, ma con sulla carta d’identità un nome maschile. Una donna nata uomo che ha poi voluto essere donna. Una transgender (però che orrore, queste classificazioni che si portan sempre dietro una puzza acre di acido fenico da gabinetto scientifico tardopositivista). Marina ha un storia fissa con un signore cinquantenne di borghese eleganza e borghesi mezzi economici che una sera, dopo aver fatto l’amore con lei, si sente male. Portato al pronto soccorso, muore: aneurisma. Quel che segue è la solitudine di Marina dopo la perdita del suo uomo, la solitudine di chi deve vedersela con il pregiudizio, il disprezzo, il sospetto. Si fa viva la famiglia di Orlando, il figlio, la seconda moglie, che esigono, subito, quel che ritengono sia loro (l’unico a mantenere maniere civili è il fratello del defunto: lo interpreta Luis Gnecco, il Neruda di Pablo Larrain). Marina non ha niente, non le è rimasto niente. Trama come si vede a fortissimo rischio di esemplarità, di parabola sui diritti non riconosciuti degli amori lgbt e transgender, sulla loro asimmetria rispetto agli altri amori ecc. ecc. Ti aspetti il solito spottone sugli omomatrimoni, sul gender e quant’altro. Ma Sebastian Lelio è un autore vero, e troppo serio per fare della spiccia e anche volgare propaganda, e i fratelli Larrain che producono il film troppo avvertiti per incorrere in una cosa qualunquemente corretta. Una donna fantastica vince la sua scommessa puntando su silenzio e sottrazione, osservando Marina nel suo agire e reagire agli ostacoli (la famiglia di lui, la polizia), senza trasformarla nell’eroina stucchevole di una lotta per i diritti. Non ci sono slogan, non ci sono militanze né striscioni da gay pride, c’è solo la vita. Marina si muove per la propria dignità, il rispetto di sé, e per l’uomo che ha perduto. Nell’ultima mezz’ora la perfetta austerità della messinscena (molte inquadrature frontali, dialoghi misurati e essenziali, retorica assente) si sfrangia in qualche scena non così necessaria. Ma il film tiene avvinti dalla prima all’ultima inquadratura e vince la sua scommessa. Adesso qualcuno si spinge a ipotizzare una nomination di Daniela Vega all’Oscar per la migliore interpretazione femminile, e sarebbe la prima volta di una trans. Vega se lo meriterebbe. Stiamo a vedere.
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