Lorello e Brunello, un film di Jacopo Quadri. Concorso Torino 35.
Due gemelli cinquantenni e la loro azienda agricola nel grossetano. La fatica e anche la bellezza di un lavoro di cui oggi, nell’era della virtualità, rischiamo di perdere la percezione e la memoria. Un bel documentario italiano e una buona sorpresa del concorso. Voto tra il 6 e il 7
Nel tempo della scomparsa del lavoro e – quando c’è – della sua progressiva smaterializzazione, un documentario italiano che ci riporta a terra, alla terra, a chi la coltiva e, letteralmente, ci si sporca le mani. Che di fronte a certo fighettume e fuffume postlavorativo di altri film visti a questo TFF (per dire: in They, altro titolo del concorso, una giovane donna di mestiere è performer, nel senso che “estraggo piante dal loro humus e le reimpianto altrove” a significare non ricordo più che cosa), assistendo a Lorello e Brunello finalmente si respira la vita, e la fatica. Si torna al reale pre-reality, prima di ogni sua simulazione. Una discreta sorpresa da parte dell’editor Jacopo Quadri qui – e non è la prima volta – anche regista, anzi autore totale. Il modello di riferimento è quello del documentarismo di ultima generazione, niente aproccio didattico-didascalico, via ogni sottotitolo e ogni spiega, niente voce fuori campo, niente racconti in prima persona a rievocare e commentare (con la sola eccezione di una fantastica ottantacinquenne di nome Ultimina, memoria vivente del presente, e del passato prossimo e remoto di tutta la zona, che si rivolge alla cinepresa come rispondendo a un passante curioso che le abbia chiesto informazioni, e dunque trasformando la cinepresa in interlocutore e personaggio). Solo il flusso di immagini e i pezzi di realtà, ripresi con i loro suoni, le voci, gli atti, il fare e il disfare. Dite che è cosa ovvia? Mica tanto. Basti guardare un altro documentario italiano dato qui a Torino, My War is Not Over di Bruno Bigoni, peraltro su un nobile tema, e però girato come un servizio di Tv7 di 50 anni fa. Jacopo Quadri (parentesi: non dimentichiamoci di suo padre, il grande Franco) crea una narrazione attraverso il montaggio, lasciando che sia la vita nel suo svolgersi dei due fratelli gemelli (eterozigoti) protagonisti a raccontare. Cinquant’anni e qualcosa, Lorello e Brunello mandano avanti un’azienda agricola e di allevamento nella bassa Maremma, grossetano, mi è parso di capire là dove la Toscana si stempera in Etruria. Hanno, a vederli, cinquant’anni e qualcosa, non hanno figli, o almeno così sembra, perché in ottemperanza al nuovo diktat del mostrare, soltanto mostrare senza aggiungere, il regista non ci fornisce informazioni fuori quadro. Tutto sta lì dentro, sulle schermo. Con Lorello e Brunello sempre indaffarati, sempre a faticare, perché con la terra e gli animali non c’è mai tregua, estate e inverno e stagioni di mezzo. Commuove la dedizione dei due gemelli al proprio lavoro, scrupolosamente svolto senza troppo lamentarsi anche quando ce ne sarebbe un qualche motivo (che lezione, signori), dedizione che è anche accettazione stoica e perfino zen, del poprio destino, di quello che ti è toccato nel mondo. Altri personaggi entrano qua e là nel flusso narrativo. La signora rumena compagna di Brunello, la vicina quasi novantenne con il figlio cinquantenne scapolo e cardopatico. Un film rispettoso e perfino pudico, che va a testimoniare un mondo che stentiamo a riconoscere, come se fosse in via di estinzione, di oscuramento nei suoi tratti antropologici, storici, di cultura materiale e, ebbene sì, nei suoi valori. Filmare Lorello e Brunello come si filmerebbe une remota comunità del Borneo. Solo che qui, stavolta, il Borneo siamo noi.
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