
L’hongkomghese The White Girl. Al quinto posto
The White Girl, regia di Jenny Suen. Co-regia di Christopher Doyle. Con Joe Odagiri, Angela Yuen, Jeff Yiu, Michael Ning. Concorso Torino35.
Visualmente notevole, e memore della lezione di grandi come Antonioni, Wong Kar-wai, Tsai Ming-Liang. A Hong Kong, strano incontro tra una ragazza dal pallore fantasmatico e un vagabondo assai elegante venuto da chissà dove, ed è (forse) amore in una villa magnificamente shabby-chic. Un film nostalgico del mondo di ieri, di una Hong Kong perduta. Avrebbe meritato un premio. Voto tra il 6 e il 7
Nel distretto dei pescatori di perle (e non solo) di Hong Kong, o in quel che ne resta, un padre e una figlia, giovane e di diafana bellezza. Oppressa da quel genitore soffocante per troppo amore, che teme per la sua vita impedendole perfino di esporsi al sole (“tua madre ne è morta, ricordalo”), costringendola a coprirsi anche d’estate. Vivono su un barcone, e lei, la ragazza bianca, nel senso di pallida ma non soltanto, viene ostracizzata dai vicini, bullizzata dai ragazzacci di strada e compagni di scuola. Fantasma, la chiamano. Dicono porti sformata. La ragazza bianca è una paria sociale. Lei intanto apre vecchi bauli, ripesca le squisite cose vestimentarie della bellissima mamma, aspirante Miss Hong Kong, cantante, precocemente scomparsa. Un giorno finisce in un rudere meravigliosamente shabby-chic di una vecchia villa coloniale britannica, macchie di umido e muffa dappertutto, pareti scrostate e crepate, come ferite, e specchi slabbrati e smangiati che rimandano immagini indistinte e spettrali. E uno strano congegno pentagonale, o essagonale, ruotante sul tetto, a catturare le immagini del mondo fuori e proiettarle all’interno. È lì vicino, a bordo mare, che The White Girl conosce un giovane uomo vagabondo, venuto da chissà dove, di nome Sakamoto (giapponese?). Povero e però molto bohemian-chic, alloggiato nel rudere-meraviglia, con addosso un magnifico piumino nero con capuccio che neanche Prada ai tempi belli. Povero e insieme elegantissimo anche quando, smesso il piumino, si mette una giacca nera con nastri neri incollati come in un’installazione (premio Uomo Vogue subito; sì, lo so che l’Uomo Vogue, almeno quello cartaceo, l’hanno chiuso – è la crisi dellìeditoria – ma è giusto per capirci). Non succede molto altro, se non che una banda di speculatori cattivissimi e un po’ da cartone animato, spalleggiati dal sindaco-boss del distretto, vorrebbe far sloggiare tutti, distruggere la villa e farne uno shopping center. Se la dovranno vedere con la ragazza bianca, il suo quasi moroso venuto da lontano, e un ragazzino di strada assai sveglio. La trama conta e vale pochissimo, contano le immagini, il microclima interno che i due registi (Christopher Doyle è celebrato direttore della fotografia residente e operante a Hong Kong da molto tempo) riescono a costruire. Siamo tra il Wor Kar-wai più contemplativo e lo Tsai Ming-Liang affascinato dalla decadenza e dal degrado delle cose (e degli umani). Circola lungo tutta la storia, nascosta ma non troppo, la nostalgia canaglia per la Hong Kong com’era: prima dei nuovi ricchi arroganti e volgari, soprattutto prima che passasse alla Cina, quando stava ancora sotto dominio britannico. La villa dissestata è il mondo di ieri che ormai non c’è più e che, credo, molti a HG vorrebbero ritrovare. The White Girl convince quando si attiene alla contemplazione, alla pura visualità, in un antonionismo filtrato attraverso il cinema orientale, meno quando inserisce il pilota automatico della denuncia ecologista di maniera.
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