Recensione: L’INSULTO, un film di Ziad Doueiri. Indispensabile per capire il Libano (e tutto il Medio Oriente)

37486-The_Insult__1_L’insulto (The Insult) di Ziad Doueiri. Con Adel Karam, Rita Hayek, Kamel El Basha, Christine Choueiri, Camille Salame, Diamand Abou Abboud.
003004Beirut, oggi. Toni è un cristiano maronita, Yasser un rifugiato palestinese. Litigano per una banale faccenda di ballatoio, una cosa che da noi finirebbe tutt’al più a Forum dalla signora Palombelli. Ma che lì si ingrossa diventando un caso nazionale, facendo riaffiorare i fantasmi della guerra civile e le tensioni tra le varie componenti etno-religiose. Cristiani contro musulmani, e palestinesi contro tutti. Il film, usando la forma del courtroom movie, si fa specchio di un paese dagli odi incrociati e mai domati. Buon successo lo scorso settembre alla mostra di Venezia. Film importante, ineludibile. Voto 7 e mezzo
37482-The_Insult__3_001Un film libanese importante, ma davvero. Libanese, e però con determinante contributo di produttori francesi, tra cui Julie Gayet (ricordate l’affaire Hollande?). Dopo la buonissima accoglienza a Venezia e la Coppa Volpi di miglior attore a uno dei suoi due protagonisti, il palestinese Kamel El Basha, arriva in sala meritoriamente distribuito da Lucky Red. E va assolutamente visto per capire meglio quel complicato mosaico di etnie, culture, appartenenze religiose che è il Libano senza cadere nei soliti cliché. O nell’ignoranza da social network di chi discetta e sproloquia di geopolitiche mediorientali dopo un paio di titoli intravisti nei tiggì.
L’insulto è il classico caso in cui la forma cinema non si presenta particolarmente sofisticata: qui di innovazioni linguistiche e narrative non si vede traccia, ed è probabilmente il motivo per cui a Venezia non è piaciuto alla critica più oltranzista e cinefila. Ma stavolta, signori, sono i contenuti a dominare schiacciando tutto il resto, e cosa mai volete che sia se confezione e modello narrativo sono dei più convenzionali (e però nient’affatto disprezzabili, pure con gloriosi precedenti: The Insult è un perfetto courtrooom movie, genere illustrissimo, tant’è che il regista Ziad Doueri ha dichiarato in conferenza stampa al Lido la sua ammirazione per Il verdetto di Sidney Lumet). Stavolta mi schiero dalla parte dei biechi contenutisti. La materia trattata è talmente esplosiva da far passare il resto in secondo piano. E fa niente se c’è qualche furbata che a un festival suona maleducata, un attentato al bon ton autoriale (vedi il colpo di scena che ci fa scoprire come l’avvocatessa della difesa sia la figlia dell’avvocato della controparte). Il film ha struttura robusta, un andamento serrato e avvincente. Dosa benissimo le sue rivelazioni alternando pause e climax. Ed e probabile che diventi un successo arthouse internazionale se solo trova il vento giusto. Tutto parte con una lite da ballatoio e da strada di quelle che in Italia finiscono in tv a Forum dalla signora Palombelli, ma che lì a Beirut – non bloccata e disinnescata per tempo – si ingrossa fino a questione nazionale, lacerando l’intero paese, facendo riaffiorare gli spettri della guerra civile, e non solo. Riattivando divisioni etno-religiose mai sanate. Un crescendo dal micro al macro in forma di film, dal battito d’ali della farfalla alla catastrofe.
In un quartiere cristiano-maronita di Beirut, oggi. Dal balcone di Toni cade acqua (lui sta banalmente innaffiando i fiori) addosso al sottostante capomastro Yasser, impegnato in lavori giù in strada con la sua squadra. Lo scarico non è collegato alla grondaia, Toni ha torto marcio, non ce n’è. Solo che al giustamente incacchiato Yasser (che scopriremo poi essere palestinese) scappa uno ‘stronzo’, ed è la lite. Toni esige le scuse, Yasser si rifiuta di abbassarsi a tanto (la guerra tra opposti machismi, tra orgogli da maschi alfa è uno dei sottotemi del film) e la faccenda comincia a complicarsi. Il capo di Yasser fa da mediatore, programma un incontro con Toni nella sua autofficina. Si spera che il capomastro si scusi e finalmente tutto finisca. Macché. Al cristiano Toni sfuggono parole letali: “Hanno ragione gli israeliani a dire che voi palestinesi non perdete mai l’occasione di perdere le occasioni. Sharon avrebbe fatto meglio ad ammazzarvi tutti” (il riferimento e alla guerra israelo-libanese del 1982, quando Ariel Sharon arrivò alle porte di Beirut. Seguì l’irruzione nei campi palestinesi di Sabra e Chatila con massacro di migliaia di civili da parte delle milizie maronite, e l’esercito israeliano schierato fuori senza intervenire: eventi ricostruiti dal punto di vista israeliano nel meraviglioso film di una decina di anni fa Valzer con Bashir). Yasser reagisce, ed è scazzottata con due costole fratturate al maronita Toni. E il caso esplode. Il ferito porta in tribunale il suo feritore, ad assisterlo il più abile avvocato cristiano-maronita in città (e anche legale del partito nazional-nazionalista). Non sto a dire di più. Ma lo scontro davanti ai giudici (in primo e in secondo grado) diventa lo specchio in cui la nazione è costretta a riflettersi. Gli spettri riaffiorano. L’irriducibile complessità etnico-religiosa del Libano, un paese inventato dalle potenze europee dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano, torna al centro del dibattito pubblico. Le alchimie costituzionali messe a punto per mantenere il paese in equilibrio dopo la sanguinosissima guerra civile tra anni Settanta e Novanta sembrano vacillare sotto l’onda d’urto della piazza e delle rabbie contrapposte innescate dal caso di Toni e Yasser. I palestinesi ricordano come, dopo la fuga da Israele nel 1948, il Libano li abbia sistemati e dimenticati nei campi, negando loro la cittadinanza e i più elementari diritti. I maroniti, di cui Toni è un esemplare tipo umano, accusano a loro volta i rifugiati palestinesi di essere sempre stati un problema dovunque siano andati (Giordania, per esempio), di non essersi mai integrati, di aver attaccato lo stato libanese, di aver fatto della propria condizione di esiliati un’arma di ricatto sull’opinione pubblica internazionale ottenendo consensi e aiuti economici. Tant’è che il simbolo immarcescibile ancora oggi dei cristiani maroniti, la loro icona, la loro bandiera, il loro santo laico, il loro martire, resta quel Bashir Gemayel presidente ragazzino del Libano ucciso nel 1982 in un attentato proprio dai palestinesi (fu l’antefatto e la causa scatenante della successiva rappresaglia a Sabra e Chatila). A sconvolgerci e inchiodarci alla poltrona non è la lite tra Toni e Yasser, ma l’incredibile, vertiginosa storia del Libano, paese mosaico dagli odi incrociati e indomabili. Ai sostenitori della causa palestinese l’avvocato cristiano ricorda nel film come nessuno sia mai del tutto innocente, nessuno immune dalla colpa, rievocando il massacro perpetrato negli anni Settanta in una piccola città a nord di Beirut (e ve ne furono altre teatro di eventi simili) di centinaia di cristiani, donne e bambini compresi, a opera anche di milizie palestinesi. “Nessuno ha l’esclusiva della sofferenza”, e sono parole che dovrebbero stamparsi nella testa di tutti. Quando il confronto in tribunale arriva al suo acme Toni viene attaccato come “sionista e servo degli israeliani” da una banda di ragazzi palestinesi. Ecco, non vorrei che anche questo film fondamentale, che merita tutto, possa essere intralciato nella sua carriera internazionale dall’accusa strumentale di sionismo. Solo perché ha il coraggio inaudito di andare oltre, e contro, la retorica filopalestinese che è stata ed è dato strutturante dell’identità culturale della sinistra europea. Ed è anche il caso di ricordare come oggi a essere massimamente in pericolo in tutto lo scacchiere medio-orientale siano le minoranze cristiane. Vale, in Libano, per i cristiano-maroniti (e altre confessioni cristiane, come i melchiti e i siriaci). Maroniti un tempo forza egemone nel paese, anche con parecchie macchie nel proprio passato (la costituzione di una propria falange su modelli fascistoidi, il massacro di Sabra e Chatila), ma oggi minoritaria a fronte della crescente potenza musulmana, sunnita e soprattutto sciita, leggi Hezbollah. Giusto non dimenticare la causa palestinese, ma non dimentichiamoci nemmeno dei cristiani che rischiano l’estinzione da quelle parti.
Interpreti perfetti. Diamand Abou Abboud, l’avvocatessa di Yasser, la si è vista anche in Insyriated, il film che alla scorsa Berlinale ha vinto la sezione Panorama, e che dovrebbe uscire tra non molto nei cinema italiani. Meno importante di questo, ma da vedere. Quanto al palestinese Kamel El Basha, si è detto della Coppa Volpi assegnatagli come migliore attore a Venezia. E però, perché la giuria presieduta da Annette Bening non ha premiato ex aequo anche l’altro protagonista dell’Insulto, bravo e fondamentale quanto lui? Pensiero malevolo: forse perché interpreta il ruolo meno politicamente corretto di un cristiano maronita? Che L’insulto sia film scomodo lo si è capito anche quando il regista Ziad Doueiri è stato tratto in arresto al suo rientro a Beirut dalla mostra di Venezia. L’imputazione: aver girato parte del suo film precedente, The Attack, in Israele. Dunque colpevole di “collaborazionismo con il nemico”, essendo il Libano in conflitto mai pacificato con il vicino da sessant’anni. E considerandosi reato da quelle parti che un proprio cittadino (anche se con doppio passaporto, com’è il caso del libanese e francese Doueiri) abbia rapporti con Israele e israeliani. Rapporti anche solo verbali. Tant’è che alla conferenza stampa a Venezia di The Insult alla domanda al regista dell’inviato del quotidiano israeliano Haaretz ha risposto la produttrice Julie Gayet onde evitare guai a Doueiri. Comunque i guai gli sono piovuti addosso lo stesso al ritorno in patria, dove è stato tenuto in stato di arresto per qualche ora per poi essere rilasciato sull’onda delle proteste internazionali. Digressione: mi sono reso conto solo dopo questa notizia di aver visto il suo precedente, incriminato The Attack, anche se non ricordo in quale occasione (forse a una rassegna di cinema israeliano qui a Milano allo Spazio Oberdan). Varrebbe la pena ritirarlo fuori e farlo girare in qualche sala, per come anche in quel film il regista di L’insulto è andato a rovistare in angoli oscuri della questione mediorientale, raccontando di un chirurgo palestinese residente in Israele che scopre attonito come la moglie si sia trasformata in una terrorista kamikaze nazionalista-jihadista.

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