Shining, Rete 4, ore 23,29. Mercoledì 20 dicembre 2017.
Film epocale, come quasi tutti i Kubrick. Nel senso che rappresenta il tempo suo – incubi, terrore, visioni, allucinazioni – e segna uno spartiacque tra un prima e un dopo. Kubrick possedeva il genio di ridisegnare confini, contenuti, profondità dei generi cinematografici, di trasformarli nel momento in cui li affrontava, li usava e attraversava. Il noir, il crime movie cambiò per sempre con il suo Rapina a mano armata, la fantascienza con 2001, Odissea nello spazio, il period-drama con Barry Lyndon. Shining ridefinisce nel 1980 l’horror, e l’ascia brandita dal ghignante Jack Nicholson taglia, segna, incide la storia del cinema e del genere così come aveva fatto due decenni prima il coltello che squarciava la doccia nell’hitchockiano Psycho. Tratto da Stephen King, Shining assume nelle mani di Kubrick un che di monumentale, epico, una grandiosità che nella pagina scritta era assente e mai vista prima nel cinema horror. Inquadrature costruite con maniacalità e dense di citazioni pittoriche e iconografiche. Dettagli potenziati dall’immensità dello schermo. Scene celebri che hanno nutrito e ispirato generazioni successive di cineasti, come il virtuosistico piano sequenza in soggettiva dal triciclo del bambino attraverso i vuoti, labirintici corridoi dell’hotel. Siamo tra le nevi del Colorado, in un albergo vetusto e glorioso e sinistro dove approda come guardiano uno scrittore incasinato e alcolista di nome Jack Torrance. Con lui la moglie e il figlioletto. Posto da brivido, dove molti anni prima un altro guardiano aveva sterminato in preda alle sue ossessioni la famiglia. Il bambino ha il dono dello shining, tradotto da noi immaginativamente come luccicanza, la capacità di vedere presenze e fantasmi, sicchè attraverso il suo sguardo l’hotel si anima di fugure venute dal passato di sangue: le gemelle uccise (memorabile la loro apparizione), il loro padre assassino. Luogo dei massimi misteri è la stanza 237, contenitore di fantasmi e di allucinazioni, in cui il bambino cerca di penetrare. Jack Torrance impazzirà, cercherà di uccidere. Come si fa a dimenticare l’assalto con l’ascia? O l’urlo della moglie (l’altmaniana Shelley Duval), che Kubrick modella figurativamente su Munch, ben prima della maschera killer di Scream. Per finire con l’inseguimento nel labirinto innevato, ormai storia del cinema. Qualche anno fa è circolato Room 237, film-documentario sulle più strane e folli teorie su cosa fosse quella stanza di Shining, cosa contenesse, cosa rappresentasse. Un perfetto esempio di metacinema, di cinema che parla e si nutre di se stesso, e prova della persistenza del mito di Shining.
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