Medicus – The Physician, Rai 3, ore 20,30. Sabato 6 gennaio 2018.
Convenzionale nelle premesse e sviluppi narrativi, e nella forma vetero-televisiva in cui è confezionato. Un prodotto medio benché grandiosamente spettacolare che riduce al minimo della complessità questioni assai sensibili, semplificando e banalizzando e triturando a uso di un pubblico largo. E dal pensiero tendenzialmente unico e pigro, alieno dal pensiero critico. Sì, insomma, facile demolire questo film di un due-tre anni fa tratto da un bestsellerone storico in lingua inglese, ma realizzato in Germania secondo i dettani e i modi del cinema globale ovunque esportabile (e però, a conti fatti, successo pazzesco sul mercato tedesco e scarni risultati altrove). Facile, ecco, demolire e sbeffeggiare. Invece per una volta cerchiamo di astrarci dagli schemi del (pre)giudizio cinefilo, di uscire dal frame in cui siamo imprigionati e ci muoviamo e sbattiamo in tondo, sforzandoci di vedere Medicus come oggetto rivelatore della sua (nostra) contemporaneità, come specchio di quel che si agita, oggi, adesso, in Occidente. E allora ci vedremo riflesso il bisogno virtuosamente corretto di smussare gli angoli acuti e acuminatissimi della centrale questione dello scontro di civiltà Occidente-Islam. Ritrovando anche, in questo ogggetto cinematografico, la tradizione di quello speciale esotismo che è l’orientalismo (vedi alla voce Edward Said), dove si idealizza da parte dell’Occidente un Oriente Vicino e mediamente Lontano di misteri e seduzioni, di harem e turbanti e veli: si idealizza e insieme si teme.
La storia. Siamo nell’Inghilterra medievale del Dodicesimo secolo. Un ragazzo che ha visto morire di atroce malattia la madre decide che dedicherà la sua vita alla scienza medica, della guarigione, per lenire la sofferenza del mondo. Incomincerà allora un viaggio, ovviamente lungo e periglioso, per raggiungere il sapiente persiano Ibn Sinaa, da noi detto Avicenna, maestro (tra le altre cose, filosofia compresa) di arte medica. Riuscirà a trovarlo, ma in quanto cristiano scoprirà di non poter essere ammesso alla sua scuola, sicché per aggirare l’ostacolo si darà un’identità ebraica. Succede di ogni, in questo prodotto-spettacolo – in tempi remoti lo si sarebbe detto polpettone – con scialo di dune, palme, ombrosi interni islamici, donne chiuse negli harem e uomini barbuti avvolti nelle loro vesti bianche, e lo sguardo è sempre malandrino e saettante, ovvio. Un inno alla cosiddetta multiculuralità, all’incontro dei popoli, alla fusion – come in una cucina postmoderna – di sapori e saperi diversi e anche opposti.
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