Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) di Martin McDonagh. Con Frances McDorman, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish, John Hawkes, Peter Dinklage.
Premio per lo script a Venezia, quattro Golden Globe la settimana scorsa (compreso quello di migliore film drammatico): l’opera numero tre dell’anglo-irlandese Martin McDonagh dopo In Bruges e 7 psicopatici ha fatto il botto. E si piazza in pole position per l’Oscar. Tutto meritato? Mah.
Una madre esasperata per il non-arresto dell’assassino della figlia urla la sua rabbia attraverso tre enormi cartelloni a bordo strada. Il caso torna in primo piano, ma si scatenerà in città una reazione a catena pericolosa. Dialoghi smaglianti, come sempre in McDonagh (è la sua arma migliore). Prima parte sontuosa, però finale indeciso a tutto, e paraculissimo. Buono, ma non quel capolavoro. Voto 6 e mezzo
Sono un convinto estimatore del regista (e sceneggiatore) londinese, ma di ascendenze irlandesi, Martin McDonagh, nato professionalmente a teatro e solo dopo approdato al cinema (famiglia di bravi: scrive e dirige film anche il fratello John Michael, autore del bellissimo Calvary). Lo seguo, e lo apprezzo, dai tempi di In Bruges, noir colto su due balordi intrappolati nella città più oleografica del Belgio, storia di sangue e tradimenti, e di esplosivi dialoghi, chissà perché a suo tempo avvicinata a Tarantino, da cui invece si discosta parecchio (diciamo che siamo più tra Pinter e gli elisabettiani rispolverati). E dopo quello, il gioco acrobatico e cerebrale di 7 psicopatici, tutto un dentro e fuori tra reale e immaginario che ricorda Charlie Kaufman, e anche lì scintillio di dialoghi e scoppi di violenza brutale. Un talentuoso, Martin McDonagh, che qui alla sue regia numero tre fa il botto, realizzando se non il suo lavoro migliore e più audace certo il più bilanciato, il più risolto e fruibile. Difatti, accoglienza trionfale a Venezia lo scorso settembre, dov’era in concorso e da cui è uscito con un premio alla sceneggiatura (ritirato da un McDonagh un filo piccato: forse si aspettava di più). E settimana scorsa gran successo ai Golden Globes. Ben quattro se n’è presi: per il migliore film categoria drama (quello di maggior peso), alla migliore attrice sempre categoria drama (Frances McDormand), al migliore attore non protagonista (Sam Rockwell), per la sceneggiatura (allo stesso Martin McDonagh). Rivincita clamorosa di McDonagh su La forma dell’acqua che a Venezia gli aveva portato via il leone e che ai GG si è preso solo quello per la migliore regia. E adesso? Adesso l’Oscar. Dove Tre manifesti arriva da favorito. Non tanto per la sua performance ai Golden Globes, premi che hanno perso da un pezzo la loro carica predittiva e, dico io, la loro credibilità, ma perché trattasi del film perfetto da premiare qui e ora, nell’America del dopo-Weinstein spazzata dal nuovo puritanesimo in forma politicamente corretta e pro-femminile. Martin McDonagh arriva al momento giusto nel posto giusto con la sua narrazione di una madre che chiede giustizia per una figlia orrendamente uccisa. Chi volete gli dica di no? Quanto a me, non mi metto tra gli entusiasti che gridano al capo d’opera (di McDonagh continuo a preferire i due film precedenti), avendoci scorto qualche paraculaggine di troppo, qualche ammiccamento allo spettatore, qualche vellicamento di certe pulsioni non così encomiabili del pubblico. E qualche smagliatura in fase di costruzione drammaturgica. Poi la qualità migliore di McDonagh, quella di essere un dialoghista sublime, si conferma, ed è un piacere ascoltare battute così taglienti e brillanti, autentiche rasoiate.
Ebbing, profondo Missouri, profondissima America. Con tutte le intolleranze, i pregiudizi, i razzismi neanche tanto occulti della provincia americana a prevalenza bianca (sì, certo, quella che ha fatto vincere The Donald). Mildred ha perso la figlia pochi mesi prima, stuprata, uccisa e bruciata, senza che sia mai stato arrestato, nemmeno identificato, il colpevole. Tornata single (il marito l’ha mollata per una diciannovenne), con soltanto il figlio grande accanto, è arrivata a un livello di disperazione non più controllabile. E decide di passare all’azione affittando tre enormi spazi pubblicitari all’ingresso di Ebbing. Ci farà montare tre manifesti, in cubitali caratteri neri su fondo rosso. Il più scioccante: Stuprata mentre stava morendo. Negli altri due accusa chi avrebbe dovuto agire, polizia in primis, e non lo ha fatto. Figuriamoci, la faccenda deflagra nella piccola città e sui media locali. Il caso torna a occupare i notiziari. La popolazione si spacca, la maggioranza schierata contro Mildred e un manipolo di coraggiosi dalla sua parte. Faranno di tutto per dissuaderla, minacceranno lei e chi lavora con lei. Il poliziotto cattivo anzi psicopatico di Ebbing comincerà a perseguitarla (il poliziotto buono è lo sceriffo, che cerca inutilmente di spiegare a Mildred come ogni sforzo possibile sia stato fatto, come non sia così semplice identificare uno stupratore in mancanza di prove e testimoni, e lei: fate il test del dna a tutti i maschi della zona!, e la prendono per pazza. Forse in America non sanno che in Italia una ricerca del genere è stata fatta davvero per identificare chi ha ucciso Yara Gambirasio). La guerra personale della combattente Mildred scoperchierà collusioni, ignavie, ipocrisie, paure. Tutto il repertorio del marcio di provincia, con il sovrappiù della violenza americana. Il film si lascia seguire come un western, un uno-contro-tutti nella più pura tradizione dell’individuocentrismo americano. E onore a Frances McDormand che si produce in un’interpretazione travolgente conferendo alla sua Mildred una determinazione da eroina della frontiera. Gli attori sono tutti (anche il meraviglioso Woody Harrelson) alla corte e al servizio della star, dell’ape regina. Film tiratissimo, senza un momento di noia, che strappa l’applauso. Con McDonagh abilissimo nel giostrare tra drammatico e grottesco, impresa ad alto quoziente di difficoltà che non riesce a tutti (vedi il Clooney ultimo di Suburbicon). Eppure qualcosa non funziona in questa irresistibile macchina narrativa. Si prova un certo malessere di fronte alla cittadina Mildred certo assai provata dalla vita che però ostinatamente vuole, esige, pretende giustizia anche in mancanza di prove, fino a volersi fare giustizia da sola. Su questa zona oscura della psiche si sono costruiti film e interi generi cinematografici. I poliziotteschi italiani della serie Il cittadino chiede giustizia, la legge assolve o i giustizieri tipo i Clint Eastwood e gli Charles Bronson. Mildred viene da lì, da quegli archetipi, e prima di applaudirla con entusiasmo pensiamoci su un attimo, ecco. Credo che Martin McDonagh, da sempre interessato a esplorare le reazioni di gente posta in condizioni estreme, abbia voluto metterci anche stavolta di fronte a un’esondazione psichica. La cittadina che vuole giustizia anche andando oltre la legge, pur con tutte le sacrosante ragioni dalla sua parte, non è poi così lontana dagli psicopatici del suo film precedente. Mi pare che il suo cinema sia completamente avalutativo, cinema fenomenologico dove, come in certi esperimenti di laboratorio, lo sceneggiatore-regista demiurgo mette i suoi personaggi-cavia in situazioni al limite per osservarne la risposta. Scambiare Tre manifesti per un film politicamente virtuoso, schierato dalla parte delle donne e dell’America migliore, è un errore di prospettiva, una distorsione ottica, un abbaglio. E un’illusione. Diciamo che McDonagh con le giuste cause un po’ ci marcia, perché è anche così che si conquistano platee, buone recensioni e premi (e difatti). Dietro alla fantasmagoria, ai fuochi d’artificio dei suoi dialoghi si intravedono anche cedimenti e smagliature. Com’è possibile che un suicida scriva tutte quelle lettere prima di morire? e lettere complicate e iper argomentate. E com’è possibile quella confessione dello stupratore a un amico mentre c’è lì, a pochi centimetri, un poliziotto? Ma sono difetti di fabbrica non così visibili in un film dalla confezione smagliante. Basta non parlarne come di un capolavoro.
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