Berlinale 2018. Recensione: ISLE OF DOGS di Wes Anderson. Il film di apertura è già da Orso d’oro

Isle of Dogs, un film animato di Wes Anderson. Voci di Bryan Cranston, Bill Murray, Edward Norton, Scarlett Johansson, Greta Gerwig, Tilda Swinton. Concorso.
Primo film di questa Berlinale, secondo film animato (in stop motion) di Wes Anderson. Di una sontuosità visiva da lasciare sbalorditi: al confronto Fantastic Mr. Fox era un esercizio minimalista. In un Giappone futuro e distopico i cani, domestici o randagi che siano, vengono confinati in un’isola-ghetto perché non contaminino gli umani. Un ragazzino li raggiungerà per ritrovare il suo fedele Spot. Si ripropongono, come già in Toy Story 3, i peggiori incubi concentrazionari del Novecento. Ma con la levità di tocco e la grazia di Wes Anderson. Voto 8 e mezzo

Berlinale 68, recensione #1. Quella del film di apertura – del festival e del concorso -, Isle of Dogs, L’isola dei cani, il secondo e sontuoso Wes Anderson animato (in stop motion) dopo Fantastic Mr. Fox, che in confronto a questa fantasmagoria sembra un’operina minimalista. Anche, per WA, la terza apertura di festival – sapete, ho le mie ossessioni statistiche e numerologiche – dopo Moonrise Kingdom (Cannes 2012) e The Grand Budapest Hotel (Berlinale 2014). E va sempre meglio. Quindi non date retta ai recensori a perenne sopracciglio alzato, espressione aggrottata e compulsione stroncatoria (son tutte cose che fanno crescere lo status nel giardinetto cinefilo) che amano farsi del male e farlo al lettore, i quali di sicuro, come sempre, faranno gli schifiltosi di fronte a Wes Anderson biasimandolo per deriva manierista, autoreferenzialità, sindrome narcisistico-regressivo-infantile ecc. Questo Isle of Dogs è un grande film, altroché, visivamente prodigioso, l’ennesima e più alta dimostrazione di come WA sia tra i massimi autori oggi. Certo di quelli, alla Fellini per capirci, che riproducono all’infinito se stessi e il proprio universo fantastico, e ne sono prigionieri consenzienti. E però se i risultati sono questi va bene, benissimo così. Wes Anderson, ovvero la stessa palette di colori, la passione per le giocattolerie predigitali, per le stanze dei giochi vittoriane, per i libri animati, per le avventure alla Mark Twain, per lo steampunk. E però passioni ogni volta rifiltrate e riposizionate in un frame narrativo diverso ma non troppo, quel tanto che basta per farci correre al cinema e staccare ancora il biglietto. Qui se ne va, cinematograficamente, in Giappone, a raccontarci una storia di derivazione manga, ed è il pretesto e l’occasione per scatenarsi in un tripudio di riferimenti iconografici all’Impero dei segni, come lo chiamava Roland Barthes, il paese naturalmente più elegante e stilizzato del mondo, anche (e questo lo diceva un mio amico) il più fashion conscious, qualunque cosa voglia dire. Sicché profusione di ideogrammi già dal titolo, e sfondi minuziosissimi e squisiti ricalcati sulla tradizione pittorica e quella dei manga e degli anime dello Studio Ghibli. E i riferimenti al cibo (la sequenza di come pesci e polipi si trasformino mediante virtuosistico uso di lame in composizioni grafiche è quasi un manifesto teorico ed estetico), all’ossessivo controllo giapponese della natura attraverso la forma, dai giardini zen ai bonsai. Tutto riattraversato e golosamente saccheggiato. Spero solo non si inneschino quei falsi dibattiti da festival del tipo: essendo in stop motion, sarà un film maggiore o minore? E sarà il caso di premiarlo, un cartone? Discorsi che son vuoti a perdere dopo tanto sublime Miyazaki e certi fondamentali Pixar. Ovvio che Isle of Dogs è premiabile, anzi già fin da ora, dal primo press screning di questa Berlinale, si candida all’Orso. Il racconto, come sempre in WA, è un binario, per quanto solidamente costruito, per condurci nei territori delle passioni sue, delle esplosioni cromatiche e del gioco delle forme. Dettagli che da soli valgono il film. Citazionismi di un occidentale innamorato dell’Oriente, con l’eterno dubbio se si tratti di orientalismo, di sguardo occidente-centrico mascherato da fascinazione per ciò che è opposto e lontano, o di amore vero. L’isola dei cani va a raccontarci, e non è neanche la prima volta nell’animazione (cfr Toy Story 3, vertice della Pixar), un universo concentrazionario che rielabora e ripropone il peggior incubo del Novecento, quello dei lager nazisti (e dei gulag staliniani). Solo che stavolta, nel Giappone di un futuro abbastanza vicino – vent’anni – da farsi distopia e specchio scuro del presente, sono i cani a essere perseguitati, espulsi dal consesso civile, confinati e rinchiusi in un’isola ghetto piena di monnezza e desolatissima. L’anticamera di un sterminio già deciso e che sta per essere messo in atto. Il villain è il sinistro sindaco Kobayashi. Viene da lui la guerra ai cani, randagi o domestici non fa differenza, accusati di covare pericolose epidemie e di diffonderne i bacili tra gli umani (un classico delle paranoia verso il diverso sociale e antropologico di turno: adesso tocca agli immigrati, clandestini o meno non fa differenza, a essere sospettati di portare malattie e attentare alla salute pubblica). Diviso in quattro atti, Isle of Dogs segue l’avventura del ragazzino Atari, catapultatosi sull’isola-prigione per rintracciare il suo adorato cane Spot. E di un branco di cani, uniti da un patto di reciproco aiuto per sopravvvere in quel fetido postaccio, che di Atari diventano gli alleati. Loro leader è Chief, randagio duro e tosto che non ha mai conosciuto l’affetto di un buon padrone, anzi master. Ci metterà del suo anche un gruppo anarchico che si ribella al perfido Kobayashi agitando la causa della liberazione canina. Succederanno molte cose, ma quel che conta è il viaggio visivo, lisergico quasi, in cui ci fionda Wes Anderson. Lo adoreranno tutti, questo film, a parte qualche critico malmostoso. E godiamoci la profusione di bello che un signore toccato dalla grazia ci sa dare anche questa volta. Bryan Cranston, Bill Murray, Tilda Swinton e Scarlet Johannson tra le voci. I fedelissimi Roman Coppola e Jason Schwartzman alla sceneggiatura. Musiche stavolta sopportabili di Alexandre Desplat. Nei credits finali si ringrazia, tra i molti, anche Bud Cort. Che sia l’attore dei remoti Anche gli uccelli uccidono di Robert Altman e Harold e Maude di Hal Ashby?

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